Anche questa volta i mercati azionari hanno fallito nel loro tentativo di imitare Icaro e sconfiggere la forza di gravità. Dopo quasi otto mesi di rialzo senza correzioni, quando da angolo le sirene cantavano dolci melodie di rialzi infiniti, ecco abbattersi sui poveri risparmiatori un violento temporale, che ha ricordato la dura legge dei mercati, a dispetto di chi vuole far credere che le borse salgono sempre.
A ben vedere, e l’avevo fatto notare a più riprese, l’ultima fase del rialzo presentava delle pericolose divergenze grafiche di comportamento tra indice e oscillatori, su tutti i principali mercati.
Inoltre il ciclo positivo sull’azionario aveva raggiunto una durata che raramente si è riscontrata in passato. Un indicatore di confidenza del mercato, il Vix, che misura la volatilità implicita prezzata sul mercato delle opzioni americane, e rappresenta un indice della paura di possibili storni esistente sul mercato, era tornato a stazionare nella seconda metà di febbraio intorno ai sui valori minimi di sempre.
I PRETESTI PER IL CALO
Si tratta di tre campanelli d’allarme che avrebbero dovuto mettere sul “chi va là” gli investitori.
Ma i mercati hanno bisogno di un pretesto per invertire tendenza, della classica goccia che faccia traboccare il vaso. Ecco allora che il 26 febbraio Greenspan afferma che a fine anno è possibile che negli USA arrivi una recessione. La stessa notte giunge la voce da Shanghai che le autorità cinesi stavano studiando misure per calmare l’entusiasmo sulla borsa cinese. Le due notizie in sé erano del tutto ragionevoli. Un’economia, quella americana, che cresce da 4 anni a ritmi piuttosto elevati, a tratti da “paese emergente” e al di sopra del suo potenziale, è naturale che possa assaggiare un periodo di recessione. A meno di credere, come nel 1999, alle strane teorie che certificavano la fine dei cicli economici e l’avvento del paradiso in terra. Un mercato azionario, quello cinese, che nell’ultimo anno è più che raddoppiato nelle sue quotazioni, è ovvio che vada un po’ calmato, se si vuole evitare una bolla speculativa.
Ovvietà che però in questo caso sono giunte improvvise, in un mercato privo di cautele ed in eccesso di confidenza, alimentata dai coddetti “guru”, che, all’unanimità, hanno soffiato ad inizio anno sull’entusiasmo della massa dei risparmiatori e pronosticato un 2007 glorioso come gli anni precedenti.
Il risultato è stato un fuggi fuggi che ha provocato in 5 giorni un tonfo del 15% sulla borsa cinese, di oltre il 5% sull’indice SP500 americano e di circa il 6,5% sul nostro indice Mibtel.
Siamo di fronte ad un temporale estivo, violento ma passeggero, come capitò a maggio del 2006, quando tornò quasi subito il sereno (e che sereno!) oppure sta iniziando una vera e propria stagione delle piogge destinata a durare parecchi mesi?
Saperlo è molto importante, ma anche difficile ora. Non mi sottrarrò al tentativo di decifrare il mercato, ma in altra sede. Ora credo sia il caso di aggiungere qualche riflessione per meglio comprendere quel che è successo. Anche questo sforzo può essere utile per immaginare gli esiti futuri.
La prima particolarità del movimento di fine febbraio è stata la assoluta coralità dei mercati interessati e la rapidità della discesa, che non ha eguali nel breve periodo ed è avvenuta senza eventi traumatici. In un solo giorno, il 27 febbraio, l’indice americano SP500 ha annullato tre mesi di precedenti rialzi, tornando ai valori di fine novembre. Per trovare una giornata così pesante bisogna tornare indietro a marzo del 2003, quando iniziò la guerra con l’Iraq.
IL RUOLO DEI FONDI HEDGE
Come è possibile che si scatenino giornate di panico così corale senza apparente motivo?
Sembra quasi che scattino dei meccanismi collettivi di reazione, che “ci si passi la voce” su tutti i mercati. Certamente una giustificazione sta nella tecnologia esistente sui mercati, che ha aumentato molto l’efficienza degli operatori, almeno dal punto di vista della capacità di reazione alle notizie.
Oggi qualunque semplice risparmiatore dotato di una buona piattaforma di trading on line a costo quasi zero può sapere in tempo rale quel che sta succedendo agli indici asiatici, o il valore del dato macro americano appena uscito, oppure conoscere le parole di Bernanke mentre le sta pronunciando. Perciò la risposta operativa può essere immediata con effetti a catena.
Ma probabilmente non estraneo dovrebbe essere il fatto che i gestori di fondi, tradizionali ed hedge, che movimentano la parte più cospicua delle attività finanziarie esistenti, utilizzano modelli di gestione del rischio assai simili, che tendono a dare contemporaneamente segnali di riduzione dell’esposizione. Inoltre il ruolo dei fondi hedge nel panorama finanziario mondiale si è fatto sempre più ingombrante e la loro capacità di imprimere ai mercati impulsi non trascurabili si è aumentata molto.
Intendiamoci. Non sto dando la colpa agli hedge funds del recente ribasso. Sarebbe come dare la colpa al termometro quando ci si misura la febbre. I Fondi Speculativi fanno il loro mestiere, che è quello di far guadagnare i loro clienti. Voglio solo constatare che, mentre alcune categorie di fondi svolgono una funzione stabilizzatrice sui mercati, altri lucrano proprio sulla volatilità. Quando i mercati tendono a diventare troppo accomodanti e riducono la volatilità ai minimi termini, prefigurando un futuro ideale e senza problemi, al primo intoppo le loro strategie possono rompere gli equilibri e creare un impulso significativo, che si trasmette in tempo reale con effetti a valanga, poiché scattano anche gli allarmi dei gestori di fondi tradizionali e dei semplici risparmiatori.
Altri Fondi speculativi operano attravero attraverso il cosiddetto “carry trade”, cioè lo sfruttamento dell’effetto leva che si ottiene indebitandosi laddove il denaro costa poco per investirlo in attività a maggior rischio. Appena viene a ridursi la convenienza, magari perché, come in questo caso è avvenuto in Giappone, la banca centrale del paese dove maggiormente si attingono finanziamenti alza il costo del denaro, il cambiamento di strategia impatta in modo significativo sui mercati, proprio a causa dell’imponenza dei capitali gestiti dai Fondi Edge, che sono diventati una quota forse troppo importante della finanza mondiale.
E’ LA GLOBALIZZAZIONE, BELLEZZA!
Un altro elemento significativo di questo ribasso, che si è potuto osservare, è il fatto che per la prima volta l’impulso non è partito dagli USA o da una delle principali borse mondiali, ma da una borsa periferica, come quella di Shanghai. La Cina, pur rappresentando una economia in fortissima crescita, destinata a diventare dominante tra qualche anno, dal punto di vista finanziario è ancora un piccolo mercato, che non si può paragonare nemmeno lontanamente alle piazze di New York, Londra e Tokio. Le Borse USA continuano ad essere il faro quotidiano per tutti i mercati, ma questa volta la piccola Shanghai è riuscita ad innescare un ribasso che ha contagiato tutte le altre piazze.
Si tratta di un effetto collaterale della globalizzazione delle economie e dei mercati.
Quella globalizzazione che è stata certamente uno degli elementi che ha trainato il glorioso quadriennio rialzista 2003-2006, grazie agli effetti positivi sulla crescita mondiale del decollo dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e alla riduzione strutturale dell’inflazione mondiale per merito delle produzioni a costi del lavoro stracciati.
La globalizzazione ha però anche investito i mercati finanziari, ormai sempre più interdipendenti ed in grado di condizionarsi a vicenda, nel bene e nel male.
Si dice un battito d’ali di una farfalla in Asia può provocare un uragano dalla parte opposta del mondo. A maggior ragione se la farfalla cinese anzichè limitarsi a sbattere le ali, crolla al tappeto con una perdita del 9% in un solo giorno.
Corollario di tutto ciò è l’assoluta indifferenza dei mercati per le beghe politiche di casa nostra.
Soltanto pochissimi giorni prima del crollo a casa nostra era caduto il governo Prodi nell’indifferenza assoluta dei mercati finanziari. Ricordo quando, il 9 ottobre del ’97, Rifondazione Comunista fece cadere il primo governo Prodi, il nostro mercato perdette quasi il 3%.
Questa volta non è importato proprio a nessuno. Forse è meglio così.
L’ultima evidenza che mi preme sottolineare è la diversità di carisma che sui mercati mondiali si attribuisce all’attuale governatore dellla Federal Reserve Beranke ed al suo predecessore Greenspan.
Quest’ultimo, dopo essere andato in pensione una anno fa, è stato zitto per 12 mesi, ma ha parlato proprio il 26 febbraio, ipotizzando la possibilità (non la probabilità, ha chiarito poi) che in USA a fine anno arrivi la recessione.
Il messaggio è in decisa antitesi con le parole rassicuranti che Bernanke in diverse circostanze negli ultimi mesi ha pronunciato.
Queste parole accomodanti sono alla base della salita dei mercati negli ultimi mesi, benchè i dati macroeconomici rivelassero un certo rallentamento e le stesse trimestrali societarie relative all’ultimo trimestre 2006 non fossero così brillanti come quelle dei periodi precedenti.
Ebbene, è bastata una sola frase contraria di Greenspan per far tornare indietro di 5 mesi i mercati.
FOCUS MACROECONOMICO
TORNA DI MODA LA RECESSIONE USA
La settimana di passione dei mercati azionari di tutto il mondo si è nutrita di parole e di paure più che di dati economici. Hanno pesato sui mercati dapprima le voci di tassazione dei proventi finanziari in Cina, che hanno scatenato le prese di beneficio a Shanghai, poi le sibilline affermazioni del pensionato più ascoltato del mondo, quel mr. Greenspan, che ha adombrato la possibilità che a fine anno gli USA assaggino la recessione.
I dati macroeconomici hanno solamente accompagnato l’umore nero dei mercati, senza fornire di per sé la motivazione del forte calo.
Infatti pur fornendo indicazioni maggiormente problematiche sul futuro dell’economia a stelle e striscie, non hanno fotografato un mutamento radicale di scenario tale da giustificare l’eccesso di nervosismo che ha attanagliato le borse.
E’ vero che il calo della seconda stima del PIL americano rispetto alla prima di 15 giorni addietro è stato piuttosto deciso: dal +3,5% che aveva favorito il superamento dei massimi annuali alle borse USA ad un assai più modesto 2,2%, che rappresenta un quarto trimestre in calo rispetto al terzo e ribalta l’indicazione della prima stima, che invece fotografava un trimestre in crescita. Tuttavia più che essere visto come un fulmine a ciel sereno, questo dato avrebbe dovuto far riflettere sull’attendibilità delle prime stime del PIL in USA. Non è infatti la prima volta che verifichiamo unnotevole scostamento tra la prima e la seconda comunicazione dell’Istituto Statistico americano. C’è da chiedersi quale utilità possa avere conoscere le stime in anticipo se poi l’accertamento del dato definitivo causa scostamenti nell’ordine di oltre un terzo.
In questo caso si è trattato di un vero e proprio tranello giocato ai mercati, dapprima illusi che la debolezza dell’economia USA fosse già terminata, e poi delusi dalla constazione che il precedente dato era solo uno scherzo di carnevale.
Un altro dato apparentemente deludente, che ha favorito le prese di beneficio, è stato quello relativo alle vendite di case nuove, sensibilmente inferiori al mese precedente ed alle stime degli esperti più prudenti. Secondo questa rilevazione sembra quindi che la stabilizzazione del mercato edilizio, prevista da più parti ed in particolare da Bernanke in più di un’occasione, sia molto più una ipotesi tutta da verificare nei prossimi mesi che una certezza ormai consolidata.
Però anche qui la delusione si sarebbe evitata se si fosse maggiormente considerato che i dati del mese precedente, che avevano segnalato una ripresa dei cantieri e nelle nuove costruzioni, erano condizionati dal clima eccessivamente mite di dicembre, che aveva favorito una eccezionale attività del settore.
L’unico dato veramente sorprendente è stato perciò quello relativo agli ordini di beni durevoli, crollati a gennaio del 7,8% e ben oltre le attese degli analisti. Questo dato rivela un certo rallentamento negli investimenti e potrebbe pregiudicare il PIL del primo trimestre.
Attendiamo perciò con una certa apprensione le future indicazioni economiche, che potrebbero risolvere il dilemma sul futuro dell’economia USA confermando l’ipotesi cautamente negativa di Greenspan oppure avvalorando l’ipotesi decisamente più ottimistica di Bernanke.
Nei prossimi giorni i dati americani più significativi sono attesi martedì 6 (produttività e costo del lavoro) e venerdì 9 (Bilancia Commerciale e dati sul mercato del lavoro).
Pierluigi Gerbino
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