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Sulle dinamiche del ciclo misesiano

Banche e investitori

Non c’è dubbio che la tesi misesiana è convincente e ancora oggi attuale in almeno due elementi, che sono peraltro quelli fondamentali e propri della teoria austriaca del ciclo economico. Il primo è la sequenzialità e gradualità del processo inflazionistico. Il secondo è la natura monetaria dello stimolo che scatena il boom, il quale ha origine nel divario fra il tasso di preferenza intertemporale e il tasso d’interesse di mercato, ridottosi a seguito dell’immissione di nuova moneta (fiduciaria) da parte del sistema creditizio. Queste caratteristiche spiegano perché l’immissione di moneta fiduciaria è inizialmente accettata, ma in seguito respinta.

Ancorché persuasiva, a ben vedere la visione misesiana in realtà si preoccupa di spiegare soprattutto la nascita del boom; rimangono invece in ombra alcuni aspetti della crisi e, ancor più, della depressione. I paragrafi che seguono intendono ricorrere agli strumenti concettuali dell’autore austriaco per chiarire alcuni passaggi del suo impianto teorico e verificarne in seguito l’attinenza alla realtà odierna. In questa prospettiva, si ritiene di particolare importanza riconsiderare brevemente due questioni: la relazione fra il settore bancario e gli investitori nel momento in cui la moneta fiduciaria perde credibilità e la crisi si apre; e, in secondo tempo, il ruolo della banca centrale di fronte alla crisi incombente.

Per quanto riguarda il primo aspetto, come si è accennato, l’impostazione tradizionale austriaca prevede che quando gli operatori chiedono di convertire titoli di credito circolante in moneta effettiva le banche commerciali revochino il credito concesso agli investitori. Poiché gli investitori non sono pronti a restituire il debito a tempi brevi (il malinvestment prevede rientri a tempi lunghi), molti di essi sarebbero costretti al fallimento, mentre i progetti già avviati sarebbero abbandonati perché non più remunerativi ai tassi di mercato ora in vigore.

La realtà presenta però spesso un quadro diverso. Quando le banche si trovano a corto di mezzi monetari per far fronte alle richieste di conversione non potranno, infatti, rivolgersi agli investitori, perché questi si saranno sì indebitati a tassi artificiosamente bassi, ma difficilmente avranno accettato forme contrattuali che prevedono il rimborso a semplice domanda del creditore. Più verosimilmente, i contratti di finanziamento dei progetti a lungo termine contempleranno tassi fissi e piani di rientro opportunamente dilazionati. Di conseguenza, allo scoppio della crisi i nuovi investimenti terranno di certo conto delle nuove condizioni creditizie vigenti, ma lasceranno sostanzialmente indifferenti gli autori del malinvestment, i quali saranno tutelati da quanto stipulato all’inizio del ciclo.

In tale contesto la crisi sarebbe allora di fatto limitata al settore bancario. Potrà anche avere importanti ripercussioni redistributive, a seconda di chi si trova in possesso di monetaria fiduciaria nel momento in cui questa diventa una sorta di carta straccia inconvertibile. Né si possono escludere ripercussioni sul settore produttivo reale. Nondimeno, tali ripercussioni non saranno tanto dovute al fatto che le banche trascineranno alla rovina le imprese da loro finanziate, quanto al fatto che la crisi bancaria renderà più difficile trasformare il risparmio in investimento, riducendo così l’accumulazione di capitale fisso ed eliminando opportunità di crescita. Va da sè che questa sequenza di eventi sfocia in ciò che comunemente s'intende con il termine di ‘depressione’ a condizione che si formuli una spiegazione sul come una crisi del settore finanziario si trasforma in una crisi del settore reale in assenza di clausole vessatorie presenti nei contratti con gli investitori/debitori; e a quali condizioni la crisi del settore bancario/finanziario può prolungarsi.

In sintesi, si può quindi affermare che nella sua formulazione originaria la teoria austriaca del ciclo in realtà non conduce alla depressione, ma ‘solo’ a una crisi del settore creditizio. La soluzione in chiave austriaca della crisi potrebbe quindi essere la liberalizzazione del sistema bancario, in modo tale che gli istituti che hanno emesso moneta fiduciaria falliscano (creando un precedente per i futuri azionisti di aziende bancarie) e che le loro quote di mercato possano essere appropriate da banche esistenti più prudenti o da nuovi soggetti concorrenti. In altri termini, e coerentemente con l’impostazione normativa propria della Scuola Austriaca, la miglior politica contro la depressione post-boom rimane la concorrenza.

Quanto al ruolo della banca centrale, si è già osservato come per Mises la fine del boom sia provocata dal signoraggio inverso, a sua volta scatenato dall’inflazione[16]: durante tale fase di crisi la quantità di moneta aggregata si riduce rapidamente, poiché i titoli fiduciari non sono più accettati come mezzo di pagamento e tendono a scomparire dalla circolazione. Qui, con l’innesco della crisi accompagnata da rapida deflazione, finisce lo sviluppo del ciclo austriaco tradizionale. La trattazione non prevede altre possibilità, se non nel breve periodo.

Nell’economia di Mises la banca centrale può sì tentare di salvare le banche commerciali dalla crisi stampando nuova moneta effettiva ed evitando che falliscano a fronte delle richieste di conversione da parte del pubblico. Tuttavia, sempre nella visione misesiana, tale intervento risolve al più il problema della moneta fiduciaria. Non risolve invece quello dell’inflazione e dell’inefficiente struttura temporale dell’investimento: anche se la deflazione può essere scongiurata, le imprese sono comunque destinate a fallire.[17]

Vale invece la pena di osservare che se la banca centrale si limita a emettere nuova moneta effettiva in sostituzione di quella fiduciaria, non vi è motivo per cui l’inflazione prosegua (se non per gli effetti di trascinamento sequenziale). Le imprese bancarie non falliscono e l’ondata di crisi che investe il settore produttivo è limitata a un problema di eccesso di offerta di capitale fisso nel lungo periodo e a una carenza nel breve. Se così stessero le cose - e si tratterebbe di uno scenario accettabile perfino per Mises, che dal punto di vista reale considera la crisi come un problema di sotto-investimento - la crisi si identificherebbe nelle difficoltà che gli investitori avrebbero nell’accelerare la realizzazione dei progetti di investimento avviati in una prospettiva di lungo periodo.

La realtà però presenta un quadro ancora diverso, in cui la crisi è caratterizzata da un eccesso di offerta, non già di domanda. Nella sezione che segue si cercherà appunto di modificare il quadro concettuale misesiano al fine di sviluppare una teoria coerente con la Weltanschauung austriaca e nel contempo in grado di meglio spiegare le fasi finali del ciclo
economico.


16 Proprio per le sue caratteristiche di sequenzialità, l’aumento nei prezzi non viene avvertitoimmediatamente e quindi impedisce che gli operatori reagiscano, rifiutando sin dall’inizio la moneta fiduciaria, soffocando sul nascere la fase espansiva del ciclo.

17 In effetti l’esperienza inflazionistica centro-europea degli anni Venti era sì nata dalla politica monetaria attiva delle banche centrali. Queste tuttavia non intervenivano tanto a sostegno delle banche commerciali (con operazioni di salvataggio limitate nel tempo), quanto a finanziamento di disavanzi pubblici anno dopo anno, disavanzi che richiedevano quindi un’espansione continua dell’offerta di moneta.

Prof. Enrico Colombatto

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