Una nozione che si è rivelata utile per comprendere meglio le decisioni di investimento è quella di contabilità mentale (mental account; Thaler, 1991; Shefrin e Thaler, 1992). La contabilità mentale riguarda il modo in cui le persone si rappresentano le loro azioni in termini di guadagno e di perdita. In alcuni casi le persone possono utilizzare un solo conto mentale generale che comprende tutte le operazioni compiute in un certo periodo. In questo caso si parla di conti menali integrati che rappresentano la differenza tra ciò che l'individuo ha guadagnato e perso. In altre situazioni le persone utilizzano conti mentali separati rappresentandosi per esempio i guadagni e le perdite in due conti mentali differenti. In questo caso l'individuo valuterà le strategie per ridurre le perdite in modo indipendente da quelle per incrementare i guadagni. Secondo Thaler (1999) la prospettiva di chiudere un conto in perdita e di dover dichiarare il mancato guadagno è vissuta in modo "doloroso" dagli investitori e per questo motivo essi tendono a non vendere titoli che stanno perdendo valore. Ciò potrebbe, per esempio, spiegare perché le persone tendono a vendere troppo presto i titoli in rialzo e a tenere troppo a lungo i titoli in ribasso (Shefrin e Statman, 1985).
Benartzi e Thaler (2001) hanno studiato la relazione tra il modo in cui gli investitori decidono di allocare i risparmi in un portafoglio di investimento e la loro tendenza ad utilizzare una contabilità mentale di tipo separato per le diverse opzioni possibili per la creazione del portafoglio. Ai partecipanti al loro esperimento venivano proposte diverse opzioni tra cui decidere come allocare i risparmi da investire. Si osservò che quando sono disponibili due fondi di cui il primo investito in azioni ed il secondo investito in bond le persone investono metà del loro patrimonio nel primo fondo e metà nel secondo. Tuttavia se ai due fondi iniziali si aggiunge un terzo fondo investito in azioni si osserva che le persone dividono equamente i loro investimenti tra i tre fondi costruendo così un portafoglio costituito per due terzi da azioni e per un terzo da bond. Si può supporre che gli investitori valutano le tre opzioni separatamente e non come parti di uno stesso portafoglio.
Tuttavia se con due soli fondi disponibili si investe metà del patrimonio sul fondo azionario e l'altra metà del patrimonio in obbligazioni allora anche nelle altre situazioni si dovrebbe ottenere un portafoglio costituito al cinquanta per cento da azioni ed al cinquanta per cento da bond indipendentemente dal numero di opzioni che costituiscono il portafoglio dell'investitore. Questi risultai si configurano come un evidenza della scarsa capacità degli investitori individuali ad interpretare il concetto di diversificazione del portafoglio.
Comportamenti reattivi
De Bondt e Thaler (1985) hanno sottolineato come gli investitori nelle loro strategie di investimento tendano ad essere a volte troppo conservativi (under reaction) e altre volte troppo reattivi (overreaction). Il conservatorismo viene imputato alla tendenza degli investitori a seguire strategie di conferma delle loro opinioni sugli andamenti futuri del mercato. Queste strategie portano gli investitori a diminuire l'attenzione verso le informazioni che contraddicono le loro opinioni e dunque ad un maggiore conservatorismo nelle scelte di investimento.
Le reazioni eccessive si configurano invece come un tentativo di ristabilire una condizione di "sicurezza" di fronte ad un numero elevato e non eludibile di informazioni contrarie alle proprie opinioni. A conferma di ciò si osserva che spesso gli investitori hanno l'attitudine a sposare le tendenze del mercato, cioè a comprare quando il mercato è in fase di rialzo e a vendere quando il mercato è in ribasso (Hilton, 2001). A tal proposito De Bondt (1998) ha suggerito come da un punto di vista speculativo potrebbe risultare vantaggiosa una strategia che va in direzione opposta rispetto alle tendenze prevalenti nel mercato. Tuttavia una simile strategia ha poca probabilità di essere impiegata a causa della avversione al rischio degli investitori.
Infatti essa impone di comprare quando il mercato è in ribasso e la maggioranza degli altri investitori sta vendendo e di sopportare una fase in cui i titoli appena acquistati continuano a perdere valore. Difficilmente un investitore riesce a superare questa prima fase anche tenuto conto del fatto che gli investitori faticano ad accettare che un titolo sul quale hanno investito sia in perdita nonostante tutti gli altri titoli del portafoglio riescano a compensare la perdita (Thaler, 1992). Questo fenomeno è dovuto al tipo di contabilità mentale che le persone utilizzano; in questo caso l'investitore utilizza più conti mentali separati per gli investimenti in attivo e per quelli in passivo ed è quindi incapace di valutare l'andamento del portafoglio nel suo complesso.
Equity premium puzzle
L'equity premium puzzle (l'enigma del premio associato ai titoli azionari) è una formula introdotta da Mehra e Prescott (1985) per sottolineare il fatto che gli investitori giudicano eccessivamente rischiosi gli investimenti sui titoli azionari. Il giudizio degli investitori si basa sul fatto che il valore dei titoli azionari è molto variabile soprattutto se confrontato con altre tipologie di investimento più sicure (per esempio delle obbligazioni) tuttavia le azioni permettono di guadagnare decisamente di più sul lungo periodo.
Si parla di premio associato alle azioni proprio perché il maggior guadagno che assicurano gli investimenti azionari sembra essere un riconoscimento verso l'investitore che ha deciso di fronteggiare l'elevata variabilità di rendimento del titolo azionario.
L'interesse verso questo fenomeno nasce dalla constatazione che se si considerano gli assunti della teoria economica gli investitori dovrebbero essere straordinariamente avversi al rischio per chiedere un simile premio a fronte di un investimento in azioni. La conclusione è che le azioni sembrerebbero decisamente più vantaggiose di qualsiasi altra forma di investimento ma essendo considerate più rischiose dagli investitori sono anche destinate ad un ruolo minoritario nei portafogli di investimento.
Per spiegare questa contraddizione Benartzi e Thaler (1995) hanno sostenuto che gli investitori non sarebbero avversi all'elevata variabilità del rendimento del titolo azionario ma alla possibilità di registrare un perdita, in altri termini gli investitori sarebbero principalmente preoccupati dalla possibilità di scoprire che un titolo è in perdita nel momento in cui decidono di verificare l'andamento dei loro investimenti. Utilizzando una simulazione Benartzi e Thaler hanno determinato che un investitore medio verifica l'andamento del suo portafoglio almeno una volta ogni tredici mesi, quindi più o meno una volta all'anno. Tuttavia nell'arco di un singolo anno capita di frequente che le azioni abbiano un rendimento inferiore ai bond anche se poi quando crescono di valore sono in grado di recuperare la perdita e superare il rendimento assicurato dai bond. Ma se gli investitori valutano il rendimento dei loro investimenti ogni anno e se sono avversi alla perdita allora è comprensibile che essi desiderino un premio molto ampio per aver affrontato il rischio di scoprire che i loro investimenti sono in rosso.
In pratica coloro che valutano i propri investimenti ogni anno modificano ogni dodici mesi il loro punto di riferimento (status quo) cosa che impedisce loro di giudicare gli investimenti con un'ottica globale di lungo periodo. Ciò significa anche che gli investitori sono più suscettibili all'oscillazione del valore dei titoli che all'incertezza collegata alla possibilità di ottenere i risultati a termine prefissati.
Enrico Rubaltelli www.finanzacomportamentale.it
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