La correzione di breve periodo dei mercati azionari, che abbiamo visto a partire da inizio mese, dopo la realizzazione dei massimi della ripresa settembrina, si è interrotta proprio venerdì scorso e ieri si è sviluppato un tentativo di rimbalzo.
La per ora timida ripresa dei mercati ha coinciso con alcuni dati macroeconomici non negativi, come le vendite al dettaglio ed oggi l'inflazione americana.
A proposito di inflazione, come per l'Europa abbiamo potuto fare le scorse settimane, è stato effettivamente piuttosto sorprendente constatare anche per l'America che il forte rialzo del prezzo del petrolio non si sta affatto scaricando sugli indici generali dei prezzi.
Si credeva, data l'esperienza delle ultime due grandi crisi energetiche passate (negli anni 70 e 80), che l'aumento del prezzo del petrolio si sarebbe propagato alla generalità dei prezzi, causando un impulso inflazionistico che, come allora, sarebbe stato difficile da contrastare.
Invece questa volta nulla, almeno per ora. La scorsa settimana abbiamo addirittura constatato nel nostro paese una rilevazione dell'inflazione in calo proprio nei giorni dei record dei prezzi del greggio.
Come si spiega questa stranezza, che effettivamente Greenspan aveva avallato nei suoi ottimistici interventi di agosto e settembre?
C'è chi afferma che sia solo una questione di tempo. Prima o poi gli effetti inflazionistici si scaricheranno sul sistema.
Vi è invece chi ipotizza una spiegazione del fenomeno un po' più articolata e degna di attenzione.
Da un lato si nota che nelle nostre economie, anche per effetto di quel formidabile creatore di concorrenza che va sotto il nome di globalizzazione, il lavoro dipendente ha perso notevolmente potere contrattuale. Uno degli effetti di questa decadenza è la minor capacità di contrattare la sterilizzazioni dei salari dagli effetti dell'inflazione. Ricordiamo che molti accusarono i meccanismi di indicizzazione automatica dei salari (la scala mobile) di essere tra i principali motori di diffusione dell'inflazione nel sistema economico. E' fuor di dubbio che oggi non c'è più alcun automatismo, anzi il lavoro dipendente rischia di assorbire sulle sue spalle parte degli impulsi inflazionistici sotto forma di minori garanzie contrattuali.
Il secondo profondo cambiamento è dovuto alla presenza di settori protetti dalla concorrenza internazionale, in particolare da quella dei paesi emergenti (India e Cina soprattutto), per i quali gli aumenti dei prezzi si possono effettivamente attuare senza particolari problemi; ma accanto ad essi ve ne sono altri, in particolare l'elettronica di consumo, per i quali accanto al progresso tecnologico che abbatte naturalmente i prezzi, si nota una fortissima concorrenza dei produttori dei paesi emergenti, che ne potenzia l'effetto.
Si viene quindi a creare una notevole modificazione nei cosiddetti prezzi relativi, con beni che salgono di prezzo e beni che diminuiscono.
Ora, normalmente i beni che tendono a diminuire di prezzo sono generalmente quelli considerati più moderni ed appetibili dalle giovani generazioni (la tecnologia innanzitutto ed i servizi ad essa legati).
I panieri che misurano l'inflazione sono stati in questi anni continuamente rivisti per aumentare il peso di tali beni e servizi a scapito di quelli più tradizionali.
Questo spiega almeno in parte il motivo per cui la percezione che i consumatori hanno di una inflazione abbastanza rilevante non venga confermata dagli indici ufficiali, che vengono tenuti " a freno" proprio da questi beni che calano di prezzo anziché aumentare.
D'altra parte questi beni e servizi "nuovi" sono così appetibili che ne è aumentato considerevolmente il consumo rispetto a qualche tempo fa tanto che da parecchi vengono ormai considerati quasi come generi di prima necessità. Pensiamo al classico telefonino o all'abbonamento a Sky. Per fare soltanto un esempio, pensiamo che qualche anno fa una famiglia tipo spendeva al mese non più di 100.000 lire, pur con tariffe telefoniche molto più alte di oggi. Ai giorni nostri, con tariffe che hanno subito un abbattimanto cospicuo, una famiglia media spende assai di più di 50 euro al mese per telefonare (fisso e cellulare). Ecco perché possono coesistere indici dei prezzi che non salgono e consumatori che hanno l'impressione che i loro salari non bastino mai ad arrivare a fine mese. E gli esempi potrebbero continuare.
Il mondo è cambiato, e con esso anche le regole che sembravano naturali diventano discutibili.
FOCUS MACROECONOMICO
La settimana scorsa è proseguito il lento sgretolamento delle ottimistiche previsioni di crescita che è in atto ormai da tutta l'estate. Anche gli ultimi dati pubblicati hanno confermato per gli USA una situazione economica non recessiva, ma certamente non entusiasmante come poteva sembrare questa primavera.
In particolare la bilancia commerciale continua a permanere sgtabilmente ed abbondantemente al di sopra dei 50 miliardi di dollari di deficit, nonostante la forma non certo smagliante del dollaro. L'incapacità di riequilibrare la situazione in modo naturale pone qualche dubbio sul futuro del biglietto verde. A che livello di sottovalutazione dovrà arrivare perché si inneschi un recupero competitivo in grado di riportare i conti con l'estero in equilibrio?
L'altro elemento che è emerso dai dati di venerdì scorso è la conferma eclatante della discrasia tra due indicatori che vengono generalmente utilizzati l'uno come anticipatore dell'altro. Mi riferisco a Fiducia dei consumatori e Vendite al dettaglio. In genere si suole considerare l'indice di Fiducia dei consumatori come indicatore delle intenzioni future di acquisto da parte delle famiglie americane. Se la fiducia cresce si pensa che dovrebbero crescere i consumi e viceversa. Ebbene la scorsa settimana abbiamo assistito ancora una volta (era già capitato parecchie altre volte) al fenomeno del l'andamento difforme di questi due indicatori. La Fiducia dei consumatori, misurata dall'Università del Michigan, ha proseguito nel lento ma insistente calo, iniziato circa 3 mesi fa, mentre le Vendite al dettaglio sono salite al di sopra delle previsioni degli esperti. L'ottimismo cala ma si continua a comprare. Si dimostra così la scarsa capacità predittiva dell'indice di Fiducia, benchè i mercati continuino a seguirlo.
Intanto sono giunte brutte notizie anche dall'Europa, con una caduta dell'indice ZEW sul sentiment degli operatori economici tedeschi ed un calo della produzione francese. Potrebbero essere soltanto incidenti di percorso, ma certamente rendono ancora più incerto il passo della timida ripresa europea.
La settimana dal 18 al 22 ottobre ci porterà pochi dati macro, ma interessanti. Nella giornata di martedì sarà da verificare l'indice dei prezzi al consumo americano, per misurare quanto del recente aumento del prezzodell'energia si sta scaricando sul consumatore finale. In questi mesi abbiamo infatti assistito ad un vorticoso aumento del prezzo del petrolio che non si è che minimamente riflesso in una crescita dell'indice generale dei prezzi. Tale apparente stranezza da qualcuno viene ormai considerata l'effetto di una strutturale minor dipendenza delle economie dal greggio. Altri pensano che sia solo questione di tempo, attendendosi effetti inflazionistici ritardati di qualche mese.
Segnalo anche per giovedì il superindice, ritenuto da tutti un buon anticipatore delle tendenze economiche in arrivo nel prossimo semestre. E' reduce da 4 mesi di calo, dopo una corsa di oltre un anno. Vedremo se il declino si arresterà. Proseguono intanto gli appuntamenti con le comunicazioni societarie. Sono attese le trimestrali di alcuni pezzi da 90, come Motorola, Ebay, Amazon ed altri.
Pierluigi Gerbino
Successivo: 25 Ottobre 2004
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