Mentre prosegue il rialzo dei mercati azionari verso gli obiettivi indicati la scorsa settimana, sia pure con qualche pausa per recuperare energie, la notizia della settimana scorsa credo sia stata il cambio di opinione di Greenspan, ora che il suo beniamino è stato rieletto.
Il Greenspan ottimista sull’economia americana e molto friendly con i mercati finanziari, che abbiamo visto negli ultimi mesi, venerdì ha lasciato improvvisamente il posto ad un altro Greenspan, che non ha nascosto una certa preoccupazione per gli squilibri presenti nell’economia a stelle e striscie.
La stessa preoccupazione che chi legge le mie note mi ha sentito alcune volte manifestare.
E’ bene allora tornare su questo argomento, ora che anche il grande timoniere della Fed vi ha mostrato una certa attenzione.
Come tutti sanno, poiché spesso i giornali finanziari ne hanno parlato per motivare la debolezza del dollaro, l’America convive con due enormi squilibri finanziari, che sono stati battezzati con il termine di “deficit gemelli”. Si tratta del deficit corrente della bilancia dei pagamenti e del disavanzo del bilancio federale. La dimensione di questi due deficit si avvicina, per ciascuno, al 5% del PIL. Nel corso del primo mandato dell’era Bush junior sono entrambi notevolmente peggiorati. Il primo ha ormai costantemente superato i 50 miliardi di dollari al mese, nonostante la forte svalutazone del biglietto verde e pone l’interrogativo di dove sarebbe arrivato se il dollaro fosse rimasto forte.
Il secondo, cioè il deficit federale, grazie a tagli fiscali, stimoli ai consumi e spese militari, ha raggiunto quasi il 4% del PIL partendo da un saldo attivo dell’1% consegnato da Clinton 4 anni fa al nostro George W., che passerà alla storia anche come il presidente dalle mani bucate.
La prima conseguenza dell’inasprimento di questi squilibri finanziari è nota: il calo del dollaro, accettato e voluto dall’amministrazione USA proprio per ridimensionare gli squilibri commerciali mediante un recupero di competitività delle imprese americane. Insomma, una svalutazione competitiva che, nelle intenzioni americane, vorrebbe far pagare all’Europa ed al Giappone il costo del riaggiustamento.
Ma ci sono altre conseguenze, meno note, ma non per questo meno eclatanti. Innanzitutto il debito estero americano continua ad ingigantirsi e gli USA diventano sempre più dipendenti dai flussi di capitali in ingresso negli Stati Uniti, che per ora riescono, ma sempre più a fatica, a compensare il saldo commerciale negativo.
Questi flussi provengono in gran parte dall’Asia. La sola Cina in due anni ha raddoppiato le proprie riserve in dollari, portandole a superare i 400 miliardi di dollari.
Ciò è avvenuto poiché le autorità cinesi in questi anni hanno voluto mantenere la loro valuta, il yuan, agganciata in modo fisso al dollaro. Siccome però l’economia cinese è molto competitiva, il forte surplus della bilancia commerciale con gli Stati Uniti è stato tutto mantenuto in dollari (altrimenti il yuan avrebbe dovuto rivalutarsi), acquistando titoli di stato americani.
Un simile comportamento ha fatto comodo ad entrambi: la Cina ha potuto proseguire nella sua formidabile crescita anche grazie ad una competitività artificialmente sostenuta dal cambio fisso, mentre gli Usa hanno ottenuto finanziamenti al loro cospicuo deficit federale. L’afflusso di capitali ha così compensato il deficit commerciale americano e puntellato il dollaro.
Un comportamento non molto dissimile, anche se meno oltranzista, è stato tenuto dal Giappone ed in minor misura anche dagli europei. Risulta quindi con molta evidenza una forte dipendenza degli USA dai flussi di capitali provenienti dall’estero.
Tale situazione è sempre stata letta dagli americani come un segno della loro forza di attrazione. Secondo loro è la forza della loro economia che attrae capitali da tutto il mondo e ciò permette loro di vivere sulle spalle del resto del mondo spendendo molto di più di quanto incassano ed ottenendo finanziamenti a tassi piuttosto bassi.
Personalmente sono invece da tempo del parere, e da venerdì comincia ad esserlo forse anche Greenspan, che tale situazione rifletta una debolezza finanziaria degli Stati Uniti, che si trovano oggi letteralmente nelle mani deigli investitori stranieri, soprattutto asiatici. Se costoro decidessero di interrompere o anche solo di ridurre sensibilmente i flussi di capitali verso gli USA il dollaro subirebbe un crollo di proporzioni scarsamente immaginabili. Non solo. Il deficit federale potrebbe essere finanziato soltanto ricorrendo ad un repentino e sensibile rialzo dei tassi, che metterebbe in ginocchio sia le Borse che la capacità di spesa dei consumatori americani, tradizionalmente molto indebitati.
Quanto questo scenario sia attuale non lo sappiamo. Per ora non ci sono che le prime avvisaglie di una intenzione cinese di procedere ad una graduale rivalutazione dello yuan. Però i giornalisti occidentali in Cina parlano già di una vera e propria fuga dei risparmiatori cinesi dal dollaro, in attesa della sua svalutazione contro la moneta locale. Inoltre non dobbiamo dimenticare che gli investitori europei e giapponesi che hanno investito nei T-Bond americani, negli ultimi due anni hanno perso oltre il 30% sul cambio. Fino a quando riusciranno a mantenere i nervi saldi e le posizioni in perdita, ora che qualcuno comincia già a parlare di un cambio euro-dollaro che dovrebbe a breve tendere verso 1,50?
Il problema è che è piuttosto raro vedere riallineamenti di una così vasta portata avvenire in modo graduale ed ordinato. La fuga di qualcuno può innescare il fuggi-fuggi generalizzato, con conseguenze immaginabili per il sistema finanziario americano e mondiale. Il tutto senza preavviso, come ben sa chi ha studiato i precedenti crack finanziari.
Non voglio essere pessimista a tutti i costi. Non sarei tornato su questi argomenti se Greenspan non ne avesse parlato venerdì scorso. Tuttavia il fatto che anche l’oracolo della Fed abbia voluto avvisarci ci obbliga a prendere in considerazione anche questa ipotesi un po’ catastrofista.
FOCUS MACROECONOMICO
La scorsa settimana i dati macroeconomici sono stati non molti, ma in compenso tutti abbastanza negativi.
Il dato sull’inflazione USA, il superindice e l’indice Fed Philadelphia sono stati decisamente peggiori delle stime degli analisti.
In particolare sono degne di nota le statistiche sull’inflazione americana, sia nella componente prezzi alla produzione che in quella dei prezzi al consumo, che hanno mostrato una decisa impennata in ottobre. Anche in Europa l’inflazione media si è mostrata in rialzo, passando al 2,4% annuo dal 2,1 registrato a settembre.
Potrebbe essere un movimento estemporaneo, ma anche il segno che le pressioni sui prezzi da parte del caro-petrolio cominciano a farsi costintenti.
Qualche preoccupazione dovrebbe destarla anche il Superindice, in calo per il quinto mese consecutivo e di una cifra (-0,3%) ben più rilevante del -0,1% previsto dagli analisti.
Questo indice è di solito considerato un buon anticipatore delle condizioni congiunturali del semestre successivo. Pertanto, se questa volta non fallirà la sua capacità previsionale, dobbiamo aspettarci un primo trimestre 2005 piuttosto fiacco per l’economia americana e di conseguenza per i mercati azionari mondiali.
La settimana dal 22 al 26 novembre concentra quasi tutti i dati macroeconomici importanti nella giornata di mercoledì, quando oltre ai dati settimanali sul mercato del lavoro americano, arriveranno gli ordini di beni durevoli e all’indice di fiducia dei consumatori. Nelle altre giornate è previsto il nulla o poco più, anche perché la settimana vede giovedì i mercati americani chiusi per l’importante Festa del Ringraziamento.
Pierluigi Gerbino
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