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La realtà inventata...non dalla psicologia ma dalla. fisica!

Dimostrazione del Teorema di Bell

Sulla scia dell'opera di Bell si è determinata nel mondo della fisica una considerevole tensione fra gli studiosi che si sono dati la pena di curarsene. La situazione è così descritta da Herbert: "Nonostante il tradizionale ripudio da parte dei fisici dell'idea d'interazione non localizzata, nonostante il fatto che tutte le forze note sono incontestabilmente localizzate, nonostante l'esclusione einsteiniana delle connessioni superluminali [più veloci della luce]... Bell sostiene che il mondo è pieno d'innumerevoli influenze non localizzate. Inoltre, queste connessioni non mediate sono presenti non solo in circostanze rare e particolari ma sono alla base di tutti gli eventi della vita di ogni giorno. Le connessioni non localizzate sono onnipresenti perché la realtà di per sé è non localizzata".

Negli ultimi vent'anni il Teorema di Bell è stato dimostrato in vari modi, la maggior parte dei quali si rifanno al comportamento di fenomeni subatomici quali i fotoni. Ma Herbert ha provato che il Teorema è applicabile non solo al mondo degli eventi che avvengono a livello quantistico, ma anche al «mondo familiare dei gatti e delle vasche da bagno».

Egli quindi sostiene che un'essenziale connessione e unità sottendono a tutti i livelli di realtà, non solo al livello dell'estremamente piccolo.

Molti fisici considerano il Teorema di Bell come un'interessante curiosità non essenziale per il normale lavoro svolto nei laboratori di fisica però evadono la risposta se gli si chiede una spiegazione logica: non sono in grado di darla. In effetti, la maggior parte di loro ritiene che siamo sempre più vicini a una grande teoria unificata in grado d'integrare le quattro forze fondamentali in un'elegante e poderosa descrizione della realtà atomica. Bell però ha dimostrato che tutte le teorie localistiche, per quanto possono apparentemente mostrarsi perfette, tralasciano qualcosa. Come si esprime Herbert: «Bell non si limita a suggerire o ad accennare che la realtà sia non localizzata ma effettivamente lo dimostra, applicando la chiarezza e il potere del ragionamento matematico. Questo carattere perentorio della prova di Bell irrita particolarmente i fisici inclini a considerare i dati della realtà in termini strettamente localistici».

Ma come potrebbe Bell avere ragione? Il mondo che ci circonda è ovviamente un mondo localizzato. Ci vuole tempo perché gli eventi accadano al nostro livello di realtà, e non c'è dubbio che siamo circondati da oggetti separati. Noi non viviamo in un mondo di eventi istantanei. Bisogna che i segnali viaggino da A a B, e ciò richiede tempo. Eppure, malgrado i messaggi desunti dal senso comune, Bell e gli sperimentalisti che sono venuti dopo hanno dimostrato che questo nostro mondo localizzato deve basarsi su una realtà più profonda che è non localizzata.

Qualsiasi sia il modello di realtà da analizzare in fisica, «deve essere non localizzata... nessuna realtà localizzata può spiegare il tipo di mondo in cui viviamo... benché i fenomeni del mondo sembrino strettamente localizzati, la realtà al di sotto di questa superficie fenomenica dev'essere superluminale [più veloce della luce]. La realtà profonda del mondo è mantenuta da un'invisibile connessione quantistica la cui onnipresente influenza è non mediata, ma intatta e immediata».

Alcuni fisici sostengono che il Teorema di Bell è una teoria fastidiosa e inutile, destinata a essere spazzata via dallo sviluppo di teorie sulle realtà più sofisticate. Dopo tutto, le teorie della fisica non sono eterne. Ma, argomenta Herbert, «quando la teoria quantistica andrà a finire insieme con il fiogisto, l'etere calorico e quello luminifero nel bidone della spazzatura della fisica, il Teorema di Bell sarà ancora valido. Perché si basa su dei fatti... non dipende dall'esattezza o meno della teoria quantistica».

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Molti dei modelli della realtà che esamineremo sono in armonia con il Teorema di Bell. La teoria della realtà del fisico David Bohm, che include l'ordine implicito invisibile, è un modello rigorosamente non localistico e lo stesso vale per la teoria dei campi morfogeni di Rupert Sheldrake.

In sintonia con il Teorema di Bell è anche il modello della Mente Universale del fisico Henry Margenau: egli lo ipotizza completamente non materiale e non localizzato nello spazio e nel tempo. Possiamo anche aggiungere la teoria della Mente Una di Erwin Schródinger anch'essa decisamente non localistica ed altre ancora che esamineremo. Tutte queste tesi parlano di un mondo dietro le quinte che è al di là della realtà degli oggetti e delle persone. Alla base dei fenomeni quali le menti separate, individuali, c'è un'unità fondamentale che è primaria. Il Teorema di Bell è importante perché fornisce una potenziale convalida al concetto di una basilare unità sotto forma di prove matematiche e dati sperimentali.
Herbert dichiara: "Il Teorema di Bell richiede che la nostra conoscenza in materia quantistica sia non localizzata e collegata istantaneamente a qualsiasi cosa con cui sia venuta in precedenza in contatto".

Questa è essenzialmente una definizione della mente non localizzata: una mente che è collegata a tutto il resto, a tutti gli altri momenti, luoghi e persone. Eppure non è stato ancora possibile dimostrare che messaggi significativi possano essere trasmessi in modo non localizzato fra entità separate, come tra due computer ampiamente distanziati fra loro. Nonostante molti sforzi, nessuno strumento in grado d'intercettare segnali superluminali è mai stato costruito, benché esistano le connessioni non localizzate. Il Teorema di Bell non ci dice come,, usare le connessioni fra entità. Questa semplice constatazione ha indotto Herbert a suggerire che forse queste connessioni non esistono per essere da noi «utilizzate». Forse esse non esistono «per» qualcosa; forse semplicemente esistono.
Ma che la teoria consenta implicitamente o meno il determinarsi di un qualsiasi tipo diretto di comunicazione, nondimeno pare che a volte noi comunichiamo in modo non localizzato. Di fatto, esistono molti tipi di comunicazione umana non localizzata. Nessun reale contatto è necessario fra le parti comunicanti, e non pare che nessun segnale si determini tra di loro. A volte la comunicazione sembra essere realmente non mediata, intatta e immediata: i tre caratteri principali della realtà non localizzata. Come abbiamo visto in questo testo, gli effetti della cura psichica paiono uno di questo tipo di comunicazione. Alcune delle dimostrazioni più spettacolari di comunicazione evidentemente non localizzata si sono avute nel campo della parapsicologia, soprattutto grazie all'opera dei fisici Harold Puthoff e Russell Targ dello Stanford Research Institute e di Robert G. Jahn, preside ad honorem dell'Istituto di Ingegneria della Princeton University, e della sua collega Brenda J. Dunne, dei quali abbiamo brevemente precedentemente accennato.
Il lavoro di Jahn e della Dunne ripetiamo, descritto nel loro libro Margins of Reality [Margini di realtà] è diventato una pietra miliare. Esso è particolarmente valido perché scuote alle fondamenta, in modo molto convincente e a livello della vita quotidiana, il presupposto di una realtà localizzata. Gli autori mostrano che i risultati di una varietà di esperimenti non possono essere spiegati in termini di menti che agiscono in modo localizzato: menti limitate al presente e confinate a singoli cervelli. Particolarmente stimolanti e affascinanti sono i loro esperimenti sulla percezione a distanza, che sono stati replicati da altri laboratori indipendenti. In questi esperimenti, un «mittente» con sede fissa cerca di trasmettere un messaggio a un «ricevente» che si trova a distanza anche di circa diecimila chilometri; l'informazione ricevuta viene registrata a mezzo computer. Non solo si è dimostrato possibile trasmettere l'informazione in modi tali da dimostrare che la misura della separazione spaziale è irrilevante, ma a volte addirittura il ricevente «ottiene» l'informazione fino a tre giorni prima del suo invio. In un mondo localizzato questi eventi non sarebbero possibili. Simili esperimenti lasciano intravedere il tipo di realtà tratteggiata nel Teorema di Bell, un mondo non localizzato in cui alcuni mutamenti possono essere trasmessi in modi che sono non mediati, intatti e immediati, anzi addirittura ancora più rapidi che «immediati»: addirittura prima che qualcosa sia avvenuto. Dato che l'informazione è stata ottenuta prima ancora di essere conosciuta dal mittente, è avvenuto che la mente del ricevente abbia potuto sondare il tempo nel futuro e sapere, nel momento presente il futuro. Insomma, questi esperimenti suggeriscono che le menti del ricevente e del mittente non fossero realmente separate, ma una.
Jahn e la Dunne hanno anche dimostrato in modo decisivo che soggetti umani possono influenzare mentalmente i dati ottenuti da macchine mirate a eventi microscopici intrinsecamente casuali, come la diminuzione di radioattività. Inoltre: questa abilità si estende al mondo del macroscopico: alcuni soggetti possono influire su un processo casuale su larga scala, come i pattern forniti da palle di polistirolo che cadono in modo casuale in una serie di spazi aperti verticali. Particolare interessante, i risultati di soggetti singoli in questi compiti, nel corso di centinaia di prove, lascia un pattern caratteristico diverso per ciascuna persona: un tipo di «firma psichica» che cambia poco da un esperimento all'altro.
Quello che il Teorema di Bell sembra accertare, poiché si basa su fatti sperimentali, corrisponde al modello delle menti unificate: menti che trascendono spazio, tempo e persone individuali; anche questo modello si basa su fatti. Anche se la teoria quantistica viene sostituita da un'altra teoria, e se le nostre teorie sulla psicologia e sulla mente sono rimpiazzate da altre, questi fatti rimangono. Essi ci dicono che il mondo è non localizzato e che, se guardiamo abbastanza attentamente, possiamo vedere chiaramente prove di questa non localizzazione nelle nostre vite quotidiane.

La visione popolare della mente e del sé conscio di una persona come di un quid localizzato, che occupa uno spazio preciso, dà naturalmente luogo alla nostra convinzione di essere osservatori situati in un corpo da cui guardiamo la realtà a esso esterna. Questa teoria ha avuto una forza poderosa nell'intera storia della nostra cultura ed è alla base della scienza classica, secondo cui noi possiamo osservare e misurare da un punto di osservazione esterno, e poi riflettere sul possibile significato di tutto quanto; tuttavia nella fisica moderna, essa è andata in frantumi.
Attualmente la maggior parte dei fisici ritiene che sia semplicemente impossibile spiegare le scoperte della loro scienza attenendosi a questa ipotesi. La maggioranza della comunità scientifica aderisce alla cosiddetta «interpretazione di Copenaghen» della fisica moderna (così chiamata perché Niels Bohr, il suo primo ideatore, era danese). Secondo quest'ottica, a livello atomico, un mondo reale semplicemente non esiste fintanto che non viene compiuta una misurazione o un'osservazione. Prima che ciò si determini, c'è soltanto una varietà di possibili esiti per ciascun evento successivo, ciascuno con la sua possibilità di realizzarsi una volta che l'osservazione venga effettuata. L'osservatore (o, secondo alcuni fisici, uno strumento di misurazione che funga da suo agente) compie l'atto decisivo di far «collassare» tutte le possibilità consistenti in un singolo esito coerente che solo allora può essere definito evento. Prima di questo momento non siamo autorizzati a parlare di un mondo reale di cose ed eventi, ma solo di possibilità con il potenziale di essere realizzate.
Solo combinando fra loro in un'unità singola l'osservatore e quanto viene osservato la visione del mondo può avere senso.

Qui abbiamo una delle più radicali differenze fra la concezione moderna del mondo alla luce delle scoperte della Meccanica quantistica e quella classica.

L'idea di una realtà eterna e fissa che segua il suo corso del tutto indipendente da un osservatore è stata superata nella fisica moderna da una concezione che fondamentalmente incorpora umanità in tale realtà.

La Meccanica quantistica nacque al principio del secolo e crebbe come una teoria completamente rivoluzionaria che rovesciò le idee prevalenti fra i fisici dell'epoca Vittoriana.
Il modello classico sosteneva che l'atomo fosse composto di un nucleo attorno al quale orbitavano gli elettroni, come un sistema solare in miniatura. Si sapeva che gli elettroni hanno una massa pari a circa un millesimo di quella del protone (uno dei costituenti del nucleo) e che possiedono una carica negativa in grado di bilanciare quella del protone, che è positiva.

Durante i primi decenni del secolo, però, si capì che questo modello non poteva funzionare.
Tanto per cominciare, i matematici dimostrarono che gli elettroni non avrebbero potuto mantenere la propria orbita stabilmente come fossero stati pianeti, e si sarebbero fusi coi protoni del nucleo.
Poiché era chiaro che nell'universo in cui viviamo ciò non accade, si assunse, correttamente, che il modello fino ad allora accettato doveva essere sbagliato.
Grazie all'opera pionieristica di fisici come Plank, Bohr e Schródinger, emerse un modello che descriveva la natura del regno subatomico in modo di gran lunga più sofisticato; questo nuovo modello portò con sé un certo numero di conseguenze apparentemente astruse che da allora come abbiamo più volte ripetuti, hanno gettato non solo i profani nella confusione. Uno dei padri della Meccanica quantistica, Niels Bohr, giunse persino ad affermare che «chiunque non resti scioccato dalla teoria dei quanti non l'ha capita».
I problemi cominciarono davvero quando i fisici delle particelle si resero conto che l'elettrone non era una sferula di materia carica negativamente, ma poteva essere descritto solo in termini probabilistici.
In altre parole, esiste un'elevata probabilità che un elettrone si trovi a una determinata distanza dal nucleo e una bassa probabilità che sia molto più distante o molto più vicino a esso.
Legato a questo concetto è il principio di indeterminazione annunciato da Werner Heisenberg nel 1927.
Esso dimostra che esistono dei limiti all'accuratezza con cui possono essere misurate delle coppie di quantità fisiche. Ad esempio, se cerchiamo di misurare la posizione e la quantità di moto di una particella subatomica, lo stesso atto disturberà la particella a tal punto che non sarà possibile attribuire un valore preciso a entrambe le quantità nello stesso istante.
Questa nebulosità è descritta dalla funzione d'onda - in altre parole, si tratta di una descrizione basata unicamente sulle probabilità.
Ora, di primo acchito, questa potrebbe sembrare una faccenda da poco - che mai potrebbe accadere se non riuscissimo a definire con precisione l'esatta posizione delle particelle subatomiche? In realtà, questa è l'essenza stessa della Meccanica quantistica e sta alla radice di tutti i problemi che essa crea alla mente del profano. D'altra parte, questa è anche la ragione stessa per cui la Meccanica quantistica potrebbe plausibilmente aiutarci a spiegare alcuni fenomeni attualmente non spiegati.
Se non riusciamo a definire l'universo al suo livello più elementare, ciò deve voler dire che esso è costruito sulle probabilità.
Non può esserci alcuna certezza, nessuna definizione netta, nessun «sì» o «no» in assoluto. Da ciò derivano alcuni concetti estremamente singolari della Meccanica quantistica.
Il primo di essi è che l'universo può essere studiato solo a livello statistico; se lo sondiamo troppo in profondità o cerchiamo di individuare le interazioni di singole particelle, ci ritroviamo con dei risultati privi di senso. Un altro modo per considerare tutto questo è di dire che l'universo presenta una struttura apparentemente logica solo se viene considerato olisticamente.
Una cosa del genere possiamo solo accettarla a livello di intuizione; la moderna Meccanica quantistica, però, si è spinta molto più in là.
Lo stesso Heisenberg ipotizzò che l'indeterminazione del mondo dei quanti potesse comportare l'abbattimento del tradizionale concetto secondo il quale alla causa deve sempre seguire l'effetto. Peggio ancora, in questo contesto, lo sperimentatore o l'osservatore probabilmente possono interferire con l'esperimento - in altre parole, la coscienza umana potrebbe in qualche modo controllare i fenomeni che hanno luogo nell'universo.
Per capire ciò, consideriamo un famoso esperimento di pensiero ideato negli anni Venti dal fisico tedesco Erwin Schródinger, uno dei fondatori della Meccanica quantistica.

Schródinger immaginò una scatola contenente un gatto e una sorgente radioattiva. Se il materiale radioattivo andrà incontro a decadimento, ucciderà il gatto; d'altra parte, poiché il decadimento radioattivo è un fenomeno casuale, c'è il 50% di probabilità che il gatto muoia e il 50% che sopravviva. Il solo modo di cui lo sperimentatore dispone per sapere che cosa è accaduto è quello di aprire la scatola e di guardare se il gatto è vivo o morto. Ciò significa che fino a quel momento il gatto è, allo stesso tempo, vivo e morto. La probabilità diventerà una certezza solo grazie all'azione dello sperimentatore, quando questi aprirà la scatola; solo allora infatti, l'osservatore potrà controllare l'esito dell'esperimento o, per esprimersi più tecnicamente, farà «collassare la funzione d'onda».
Questa descrizione non contiene nulla di illogico o di matematicamente falso; ciò nondimeno, non suona «corretta». In realtà, essa conduce a tutta una serie di ragionamenti paradossali.
Ad esempio: Che cosa succederebbe se sostituissimo il gatto con un essere umano? Presumibilmente quest'ultimo farebbe collassare la funzione d'onda con la stessa prontezza dello sperimentatore. Che cosa proverebbe l'uomo all'interno della scatola? Potrebbe forse ignorare l'effetto dello sperimentatore?
Ora, immaginate che l'esperimento sia al centro dell'attenzione dei media. Che cosa succederebbe dopo che lo sperimentatore avesse aperto la scatola? All'interno potrebbe esserci o un essere umano vivo o un cadavere; le telecamere e i giornalisti fuori dal laboratorio, però, inconsapevoli degli eventi che si svolgono all'interno di esso, non saprebbero ancora nulla: l'uomo nella scatola, allora, è vivo o morto? Ugualmente sconcertante è chiedersi che cosa succederebbe se il gatto o l'essere umano - e magari anche lo sperimentatore - fossero sostituiti da un computer. Che effetti avrebbero queste modifiche sul risultato?
Per quanto possa sembrare ingannevole, l'esperimento di Schródinger è basato su una teoria ragionevole e su decenni di riflessione nell'ambito della Meccanica quantistica.
Esso ci mette a disagio perché sembra contraddire in primo luogo i processi logici ai quali siamo stati abituati e in secondo luogo altri processi che forse, in quanto esseri umani, sono per noi istintivi. Tuttavia, può darsi che questi principi siano giusti e che a sbagliare sia invece proprio il nostro intuito.
Questi concetti bizzarri sono stati interpretati in moltissimi modi diversi. L'approccio più tradizionale, che venne sviluppato nel 1927, è chiamato «Interpretazione di Copenhagen» e sostiene in primo luogo che l'indeterminazione degli eventi individuali caratteristica del mondo subatomico non possa essere estesa al mondo macroscopico e in secondo luogo che il mondo su larga scala dell'esperienza quotidiana sia comprensibile solo a livello statistico generale.
I critici di tale interpretazione ribattono affermando che questo ragionamento aggira il problema, e per studiare l'enigma dei quanti propongono delle vie alquanto eccentriche.
Un'ipotesi nota con il nome di Everett-Wheeler (dai suoi promotori, Hugh Everett e John Wheleer) postula che tutti i possibili esiti di un processo (nel caso del gatto di Schródinger, le due possibilità - "gatto morto", "gatto vivo") si verifichino effettivamente da qualche parte. Nel nostro universo verrà osservato solo un risultato (ad esempio "gatto vivo"), ma in un universo parallelo, sarà registrato quello opposto - "gatto morto".
Ciò significherebbe che ogni qualvolta accade qualcosa, ci sono almeno due alternative, che si verificano in universi totalmente separati e sono registrate da osservatori che non potranno mai incontrarsi. Inoltre - dall'alba dei tempi e al passaggio di ogni secondo - il numero dei possibili «futuri» è cresciuto vertiginosamente e sta tuttora aumentando avvicinandosi a una varietà pressoché infinita di possibili esiti.
Questa idea viene considerata seriamente da alcuni membri della comunità scientifica. E' stata argomento di diversi articoli e ha a sua volta rappresentato la base di altre ipotesi, ancora più contorte. Tuttavia, è assolutamente impossibile verificarla e probabilmente non sarà mai confermata.
Paradossalmente, uno dei suoi due ideatori, l'eminente fisico John Wheeler, ha attaccato i parapsicologi, dichiarando che la comunità scientifica dovrebbe buttar fuori «i tipi troppo eccentrici dal teatro della scienza».
Gli appassionati dei fenomeni paranormali ritengono che questa sia ipocrisia bella e buona e controbattono affermando che le idee di Wheeler e di altri fisici sono di gran lunga più estreme dei più fantasiosi concetti mai proposti da parapsicologi e ricercatori vari.
Dal canto loro, i fisici dei quanti affermano di fondare le proprie teorie sulla matematica e su tutta una mole di conoscenze coerenti che coprono la maggior parte del secolo. Costoro inoltre sottolineano i numerosi aspetti ormai dimostrati della Meccanica quantistica, come pure gli sviluppi tecnologici che questa disciplina ha offerto all'umanità.

Effettivamente i fisici hanno un certo vantaggio. La Meccanica quantistica è il fondamento della scienza dei laser, dell'elettronica avanzata e delle telecomunicazioni. Senza una comprensione di questa arca esotica della fisica non potrebbero esistere televisione, computer avanzati, viaggi spaziali; niente cd, niente comunicazioni globali, niente internet, niente chirurgia laser. Al confronto della fisica, la parapsicologia continua a essere - fra quelli esplorati dall'uomo - uno dei campi più evasivi e resta impossibile descriverla e definirla con precisione, anche se effettivamente è impensabile che "le scienze" dalla psicologia alla medicina che studiano l'uomo possa essere ritenute in assoluto le più complesse, a conferma di ciò è impensabile in medicina applicare le sperimentazioni con il rigore di scienze come la fisica: arriveremmo al paradosso che la medicina è roba da .stregoni!
Una terza interpretazione apparentemente meno controversa del modello di Everett-Wheeler - ma sempre elusiva nei confronti di una verifica scientifica - postula che la coscienza umana possa interagire direttamente con la funzione d'onda. Questa ipotesi è attribuita al fisico americano Eugene Wigner e postula che la mente umana possa, con il subconscio, manipolare l'universo a un livello elementare.
Qui riecheggiano le diverse idee discusse precedentemente. Ovvi sono i paralleli con il mondo unitario o "Unus Mundus" di Carl Jung e come vedremo con la risonanza morfica di Rupert Sheldrake. Questa spiegazione potrebbe render conto della psicocinesi e di alcuni tipi di telepatia; soprattutto, però, l'interpretazione di Wigner offre una soluzione al problema della precognizione, suggerendo un possibile meccanismo.
Fondamentale, ai fini di questa spiegazione, è che l'interazione fra coscienza e processi elementari non sia ristretta al «qui e adesso». In altre parole, nel momento in cui interagisce con l'universo, la coscienza umana può trascendere la distanza e il tempo. In gergo tecnico, si dice che è un'invariante dal punto di vista spaziale e temporale.
Quel che è sorprendente è che non si tratta del frutto dell'immaginazione eccentrica di qualche fanatico. Tutto questo può essere confermato da una serie di test convincenti basati sull'esperimento come abbiamo visto del fisico americano John Bell.


Questo tratto essenziale della nuova interpretazione è così espressa dal professor Wheeler: "Il fatto più importante del principio quantistico è che esso distrugge il concetto che il mondo «se ne stia là fuori» mentre l'osservatore ne è separato, al sicuro da esso... Per descrivere il cambiamento intervenuto, è necessario cancellare la vecchia parola «osservatore» e sostituirla con la nuova parola «partecipante». In qualche strano senso, l'universo è un universo partecipatorio".
Quello che è importante ai fini del nostro discorso è che la moderna scienza atomica (la più rigorosa mai elaborata dalla mente umana) si sia spinta oltre la nozione di una realtà fissa, esistente «là fuori».
Questo sviluppo, la congiunzione fra l'osservatore e quanto viene osservato, ha influenzato sia la Meccanica quantistica sia la Relatività, le due branche principali della fisica moderna. Così lo scienziato e filosofo Jacob Bronowski ha fatto il punto della situazione per quanto attiene alla Relatività: "La Relatività deriva essenzialmente dall'analisi filosofica, egli precisa che non esistono un fatto e un osservatore, piuttosto una convergenza dei due in un'osservazione... evento e osservatore non sono separabili".

E Schródinger così riconosce e applica questa verità alla sua disciplina, la Meccanica quantistica: "Soggetto e oggetto sono soltanto un unico. Non si può dire che la barriera fra i due si sia infranta a seguito delle recenti esperienze nel campo delle scienze fisiche, perché questa barriera non esiste."

Ispirato dalle scoperte della fisica e dagli antichi insegnamenti, Schródinger giunse alla convinzione che la mente non poteva essere separata dal mondo e messa in una scatola, il cervello.
Né il sé poteva essere messo in un corpo. In ultima analisi, la mente individuale e il sé non sono primari. In linea di principio, non possono essere limitati: sono intrinsecamente parte di un più grande tutto.
Uno dei grandi ed eterni dilemmi sulla natura della mente è questo: perché, se ci sono tanti ego coscienti, c'è soltanto un mondo percepito da tutti quanti? Perché non un mondo diverso per ciascuna persona? Perché non viviamo in una Torre di Babele, ciascuno di noi con una diversa immagine della realtà, incapace di comunicare con gli altri?
Quale altra alternativa può esserci per spiegare come possa una singola visione del mondo scaturire da menti che appaiono separate? Schródinger dà questa risposta: "C'è evidentemente una sola alternativa, vale a dire l'unificazione delle menti o della coscienza. La loro molteplicità è solo apparente: in realtà esiste una sola mente".

Con queste parole Schródinger ci conduce oltre il primato della persona. La mente non è più localizzata e confinata all'individuo ma è transpersonale, universale, collettiva: ossia è non localizzata.
Schródinger sostiene che esistono validi motivi per credere anche che questa Mente Una sia immortale. Questa conclusione si basa principalmente su nuove concezioni della natura del tempo. Nella moderna scienza fisica, un tempo esterno, un tempo completamente obiettivo in senso lato, non esiste. Assolutamente nulla ci dimostra che il tempo sia l'entità rappresentata nella visione di Newton, e non un solo esperimento ha mai dimostrato che il tempo scorra. Come abbiamo rilevato, la fisica moderna ha eliminato l'idea del mondo come oggetto, e con essa l'idea del tempo come oggetto. Semplicemente non esiste un mondo esterno, oggettivo, dove potrebbe esistere un tempo esterno, oggettivo. Così, nella fisica moderna non solo mente e mondo vengono sostanzialmente unificati ma anche mente e tempo.
Ora, se mente e tempo sono interdipendenti, sorge questo difficile quesito: com'è concepibile che il tempo possa distruggere la mente? Schródinger risponde che non può distruggerla: "Io arrivo a definirla [la mente] indistruttibile, poiché possiede una sua peculiare dimensione temporale: la mente, cioè, è sempre adesso. Per la mente non esiste realmente un prima e un dopo. C'è solo un adesso che comprende ricordi e aspettative. Noi possiamo, almeno così credo, affermare che allo stadio attuale la teoria fisica sembra nettamente suffragare l'indistruttibilità della mente da parte del tempo.Resta il fatto che il tempo non ci appare più come una [forza] gigantesca, dominante il mondo, né come un'entità primaria, ma come qualcosa di derivato dai fenomeni stessi. E' una costruzione del nostro pensiero. Che una simile entità possa un giorno o l'altro mettere fine al mio pensiero, come alcuni ritengono, va oltre la mia comprensione. Perfino l'antico mito fa divorare a Crono soltanto i suoi due figli, non suo padre".

La nostra mente come si manifesta nella vita di tutti i giorni non è, naturalmente, adattata a pensare nei termini di «adesso», ovvero secondo la visione che tanto affascinò Schródinger. Ciò è uno dei motivi per cui preferiamo alle descrizioni atemporali della fisica moderna a quelle lineari, progressive della scienza classica.

Noi semplicemente siamo abituati a esse e, di conseguenza, prendiamo la più sconcertante decisione: optiamo per una visione del mondo che sia totalmente obiettiva e che contenga un tempo inesorabilmente a senso unico; tutto questo a dispetto del fatto che ciò comporta morte e distruzione. Così noi sterminiamo noi stessi con la nostra concezione del mondo. E' questo un fatto che non può non sbalordirci
Essendo il tempo una costruzione della nostra mente è difficile comprenderlo se prima non comprendiamo come funziona la mente ma: per poter pensare alla mente è necessario impiegare la mente; bisogna uscire dalla mente. In questa situazione la mente deve funzionare simultaneamente come soggetto e oggetto. Ma sorge un problema: la mente è allora incompleta perché qualcosa le è stato sottratto, e ciò influirà su qualsiasi osservazione futura su di essa. Eppure, se non si esce dalla mente per osservarla, l'osservazione non è possibile. A causa del processo intrinseco di pensare alla mente con la mente, sia la completezza sia la coerenza del nostro ragionamento sono destinati all'imperfezione.
Questo apparente paradosso non è una considerazione enunciata per confonderci le idee ma bensì il risultato delle considerazioni di due leggi matematiche del più importante matematico moderno: l'austriaco Kurt Godel, dai più descritti come l'Einstein della matematica, con un orientamento leggermente kafkiano.
I suoi teoremi definiti "teoremi dell'incompletezza" sono un punto fermo della matematica moderna, per quanto incredibili, essi sono stati analizzati da matematici e logici della massima levatura per oltre mezzo secolo e non è mai stato dimostrato che contengano contraddizioni.
Essi affermano brevemente che:
1. Qualsiasi sistema logico abbastanza complesso che contenga come minimo della semplice aritmetica può esprimere asserzioni vere che non possono essere dedotte dai suoi assiomi.
2. Gli assiomi di tale sistema , con o senza ulteriori asserzioni di supporto non possono essere dimostrati in anticipo come alieni da contraddizioni.

Queste osservazioni colpiscono al cuore dell'obiettivo ideale della scienza, che è quello di elaborare un quadro completo e coerente della natura, infatti ciò è matematicamente impossibile. I teoremi di Godel stabiliscono che le leggi della natura, se sono davvero coerenti come crediamo che siano, devono avere qualche formulazione interna completamente diversa da qualsiasi altra cosa ci sia oggi nota.
Che cosa allora crea l'illusione del passaggio del tempo?
Egli affermo che: «L'illusione del passaggio del tempo proviene dalla confusione fra il dato e il reale. Il passaggio del tempo si determina perché noi pensiamo di occupare realtà diverse. In verità, noi occupiamo soltanto dati diversi. C'è esclusivamente un'unica realtà».

Ma vediamo lo stesso problema come fu affrontato da un suo collega ed amico presso la stessa Princeton University: Albert Einstein.

Quando Einstein pubblicò la sua rivoluzionaria "Teoria sulla Relatività" nel 1905, il mondo cambiò e non sarebbe più stato quello di prima. Einstein infranse le basi fondamentali e fino ad allora ritenute incontestabili della fisica classica di Newton: la sua struttura deterministica, casuale; il suo tempo lineare, fluido e il suo spazio vuoto; i suoi rigidi compartimenti di materia ed energia. Ma non è di queste intuizioni che ci occuperemo in questa sede alle quali, accenneremo molto succintamente.
La Teoria della Relatività ristretta o speciale. Le leggi che governano la nostra vita quotidiana, le interazioni con gli altri, le nascite, i matrimoni e i decessi variano, naturalmente, a seconda del paese in cui viviamo, perché sono leggi umane, istituite dai popoli per garantire una pacifica consistenza all'interno di società caratterizzate da particolari sistemi di valori. Le leggi fisiche hanno un carattere diverso. Non dovrebbero dipendere dal luogo in cui vengono scoperte, o da dove vengono applicate o esaminate, ma devono valere per tutto l'universo osservabile.
L'idea dell'universalità delle leggi fisiche è relativamente nuova nella storia della scienza e può essere fatta risalire alla formulazione, da parte di Newton, dei principi fondamentali della dinamica e della legge di gravitazione universale. Nella cosmologia di Aristotele le leggi fisiche non erano universali, ma erano suddivise in due gruppi distinti: il primo valido per la sfera superlunare, la regione al di sopra della Luna, e il secondo per la sfera sublunare, la regione al di sotto del nostro satellite. Le leggi di Keplero erano una sorta di codice della strada a uso dei pianeti e non potevano essere applicate al moto degli oggetti sulla superficie terrestre. Newton fece poi una scoperta importante sul carattere delle leggi fisiche: esse devono essere valide indipendentemente dal loro luogo di applicazione nell'universo.
Einstein scoprì un'ulteriore caratteristica delle leggi fisiche, che egli riprese come concetto fondamentale della Teoria della Relatività speciale: esse devono valere per tutti gli osservatori che si muovono l'uno rispetto all'altro di moto rettilineo uniforme. In altri termini, le formule matematiche utilizzate per descrivere le leggi fisiche devono essere indipendenti dal movimento degli osservatori, a patto che quest'ultimo sia rettilineo e uniforme. Tali leggi devono risultare sempre valide, che la loro verifica avvenga in un laboratorio immobile sulla superficie della Terra, su un treno o su un'astronave, purché in moto rettilineo uniforme, oppure in fondo a una miniera.
Il secondo principio fondamentale della Teoria della Relatività ristretta di Einstein è la costanza della velocità della luce in tutto l'universo, indipendentemente dalla velocità alla quale si muove l'osservatore. L'applicazione di questi principi alle leggi note della fisica ebbe numerose conseguenze di vasta portata. Secondo la Teoria speciale, la lunghezza della barra di misurazione doveva essere diversa per osservatori in movimento a diverse velocità. Così, ad esempio, la lunghezza di un'astronave misurata da un astronauta all'esterno della navicella sarebbe risultata diversa dalla lunghezza della stessa misurata mediante un telescopio collocato sulla Terra. Se l'astronave si fosse mossa a una velocità prossima a quella della luce, all'osservatore terrestre sarebbe apparsa più corta di quanto misurasse negli istanti precedenti il lancio, mentre l'astronauta non avrebbe notato alcuno sfasamento.
Ii possibile determinare la massa di un elettrone dalla misura della sua deviazione in un campo magnetico di forza nota. Se si misurasse la massa di un elettrone che si sposta a una velocità quasi uguale a quella della luce, essa risulterebbe notevolmente superiore alla massa di un elettrone dotato di velocità minore. Negli enormi apparecchi utilizzate per far urtare tra loro le particelle subatomiche, questo risultato della Teoria della Relatività speciale è continuamente verificabile. La teoria implica inoltre che, dal punto di vista di un osservatore immobile, gli orologi a bordo di un'astronave che si muova quasi alla velocità della luce apparirebbero rallentati, mentre gli astronauti sul veicolo spaziale non individuerebbero alcun cambiamento. I corollari appena descritti della Teoria della Relatività speciale o ristretta sono particolarmente importanti per i fisici che si occupano delle velocissime particelle subatomiche e per gli astronomi che effettuano le loro osservazioni sulle galassie lontane che si allontanano dalla Terra ad altissima velocità. Secondo la Teoria della Relatività ristretta, la massa di una particella aumenterà con il suo approssimarsi alla velocità della luce. Le relative equazioni di Einstein ci dicono che alla velocità della luce una particella assume massa infinita; ma nell'universo non esiste energia sufficiente a conferire una simile velocità a una particella, e quindi nessuna particella può muoversi a una velocità superiore a quella della luce. La teoria porta inoltre a concludere che la perdita di una piccola quantità di massa si manifesta come variazione di energia, e che il rilevamento di qualsiasi energia implica una massa.
Quando quattro atomi di idrogeno sono spinti, dalle altissime temperature all'interno delle stelle, a unirsi per formare un atomo di elio, si ha la perdita di una certa quantità di massa che si manifesta come energia, ed è questa energia a fornire il combustibile per la maggior parte delle stelle comuni. Anche la trasmissione di informazioni richiede generalmente un trasferimento di energia e, dato che l'energia possiede una massa, nessuna informazione può venire trasmessa a una velocità superiore a quella della luce. La velocità della luce costituisce quindi la velocità limite per lo spostamento della materia e delle informazioni nello spazio comune. Il modo più chiaro per rappresentare la Teoria della Relatività ristretta è il continuo spazio-tempo, composto da tre dimensioni spaziali e da una temporale. E' estremamente difficile immaginare uno spazio quadridimensionale, ma si possono utilizzare alcune analogie per spiegarne i concetti fondamentali senza dimenticare, inoltre, che non è sempre necessario considerare tutte le dimensioni spaziali.
Si può stabilire la posizione di una nave indicandone la latitudine e la longitudine in un determinato momento. Immaginiamo di segnare questa posizione in un preciso istante su una cartina geografica disegnata su un foglio di plastica trasparente, e di registrarla nuovamente dopo un certo tempo su un altro foglio. Procediamo allo stesso modo a intervalli di un'ora e poi sovrapponiamo i vari fogli, in sequenza, separandoli con blocchetti di plastica trasparente attaccati agli angoli. Se, invece di limitarci a segnare le posizioni in momenti successivi, avessimo praticato un forellino in ciascun foglio, avremmo potuto farvi passare un filo di cotone che avrebbe rappresentato lo spostamento della nave sulla superficie della Terra e nel tempo. Il filo rappresenta la linea d'universo della nave nello spazio-tempo. Questo tipo di linea esiste anche per un oggetto in stato di quiete, ma in questo caso si muove solo attraverso il tempo: sarebbe una linea verticale attraverso i nostri fogli di plastica trasparente.
L'orbita di un pianeta intorno al Sole è propriamente un'ellisse, anche se per la maggior parte dei pianeti assomiglia più a un cerchio. La linea d'universo di un pianeta nello spazio-tempo sarebbe invece simile a una spirale, poiché il pianeta non si limita a orbitare intorno al Sole, ma progredisce anche attraverso il tempo. Qualsiasi particella esistente possiede una linea d'universo nello spazio-tempo, ma le conformazioni di queste linee variano notevolmente. Le linee d'universo di due particelle entrate in collisione si intersecano nel punto spazio-temporale in cui tale urto è avvenuto. Le particelle che si trovino nello stesso punto dello spazio ma in momenti diversi non hanno possibilità di urto. La legge di gravitazione universale di Newton è in disaccordo con la Teoria della Relatività ristretta di Einstein perché implica tra l'altro un'azione simultanea a distanza, in conflitto con quanto richiesto dalla Relatività speciale, e cioè che nessuna informazione può essere trasmessa a una velocità superiore a quella della luce. Einstein tentò allora di forrnulare una nuova ipotesi, giungendo alla Teoria della Relatività generale, che è in effetti una teoria della gravità.
La Teoria della Relatività generale si fonda essenzialmente su due principi. Il primo è un'affermazione che riguarda, una volta di più, il carattere delle leggi fisiche. Secondo la "Teoria della Relatività generale", le leggi devono essere formulate in modo da non dover dipendere dal luogo in cui vengono applicate e dal moto dell'osservatore. Ciò significa che i suoi requisiti sono più generali rispetto a quelli della Teoria ristretta, per la quale le leggi devono essere valide per osservatori che si spostano di moto rettilineo uniforme. I corollari della Teoria speciale non valgono quando ci si avvicina a un forte campo gravitazionale, se si cambia la direzione del moto, oppure quando se ne modifica la velocità. In questi casi i risultati della Teoria speciale devono essere sostituiti da quelli della Teoria generale.
Il secondo principio fondamentale è chiamato principio di equivalenza: esso afferma che gravità e accelerazione hanno molti aspetti in comune e sono, da un certo punto di vista, equivalenti. Ognuno di noi può verificarlo empiricamente: quando un ascensore inizia a salire avvertiamo un leggero aumento del nostro peso e un senso di vuoto allo stomaco; quando l'ascensore si ferma, la sensazione è di leggerezza. Ciò significa che un'accelerazione verso l'alto è in grado di aumentare la forza di gravità esercitata sui nostri corpi, mentre un'accelerazione verso il basso ne provoca la diminuzione. Sono forze di tipo gravitazionale anche quelle che avvertiamo a bordo di un'automobile in rapida accelerazione: in questo caso la forza risultante ci schiaccia contro il sedile. Ne sanno qualcosa gli astronauti quando i loro veicoli spaziali sono in fase di accelerazione, e per imparare a sopportare questo tipo di forze vengono sottoposti a periodi di preparazione all'interno di una centrifuga atta a simulare proprio gli effetti della gravità. Questi due principi fondamentali portano a svariate conclusioni di notevole importanza, la prima delle quali riguarda il moto delle particelle. Secondo la prima legge di Newton, una particella permane nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non le venga applicata una forza tendente a modificare uno di questi due stati iniziali. Ciò significa che la quiete o il moto rettilineo uniforme sono le condizioni normali delle particelle e che, se si trovano nell'uno o nell'altro stato, su di esse non agisce alcuna forza. Per ognuno dei due possibili stati la linea d'universo di una particella nello spazio-tempo sarebbe una retta.
In matematica la linea retta viene definita come la distanza più breve tra due punti. Ciò è vero se uniamo due punti su una superficie piana o nel consueto spazio tridimensionale. ma non è più vero se siamo obbligati a spostarci su una superficie curva o all'interno di una regione limitata dello spazio che presenta una curvatura. Le barche e le navi che attraversano la superficie marina, una superficie curva, devono tener conto di tale conformazione al momento di stabilire la rotta. Un velivolo è obbligato a spostarsi nell'atmosfera terrestre, il cui spessore è minimo rispetto al raggio della Terra, quindi anche in questo caso per i tragitti particolarmente lunghi bisogna tener conto della curvatura dell'atmosfera. I piloti e gli ufficiali di rotta lo sanno molto bene; i marinai, quando devono viaggiare da un porto a un altro che dista migliaia di miglia, sanno di doversi spostare lungo quelli che sono chiamati archi dei cerchi massimi (un cerchio massimo divide la superficie della Terra esattamente a metà). Questo cerchio costituisce un caso particolare di una classe di linee matematiche chiamate geodetiche, che rappresentano il «cammino più breve» che unisce fra loro due punti su una superficie curva o in uno spazio «curvo». Questo concetto può essere utile per discutere una delle conseguenze della Teoria generale.
La Teoria generale considera «normale» il moto in presenza di gravità, il che implica che non bisogna cercare altre forze a meno che un corpo si muova in modo diverso dal suo «moto normale». Però la sua linea d'universo attraverso lo spazio e il tempo sarà retta solo se si trova lontana da qualsiasi oggetto dotato di massa. Secondo questa teoria la «forma» dello spazio-tempo vicino a oggetti dotati di massa non è piatta ma curva, e pertanto, nella situazione di uno spazio-tempo «curvo», le particelle seguono speciali geodetiche curvilinee. La «curvatura» dello spazio-tempo è determinata dalla presenza e dalla distribuzione della materia e, dato che esiste una massa anche nell'energia, dalla distribuzione di quest'ultima. Le regole che ci consentono di calcolare la curvatura dello spazio-tempo in base alla distribuzione di massa e di energia sono chiamate equazioni di campo.
Una volta calcolata la curvatura dello spazio-tempo, attraverso le equazioni di campo, possiamo calcolare le geodetiche di questo spazio-tempo, che a loro volta ci indicheranno il movimento delle particelle quando non sono soggette ad altre forze come, per esempio, l'elettricità e il magnetismo. Un raggio luminoso, lungo il quale l'informazione viaggia alla velocità della luce, sarà una geodetica speciale, denominata « geodetica di lunghezza nulla». Lontana da qualsiasi corpo provvisto di massa, questa geodetica di lunghezza nulla sarà una linea retta. Quindi, per le enormi distanze tra le stelle, possiamo trattare la luce come se si muovesse in linea retta, con un elevato grado di approssimazione. Ma questo non è più vero nelle vicinanze di corpi dotati di massa.

Accanto alla Terra, la cui massa è inferiore a quella del Sole, la curvatura di un raggio di luce è minima. E invece possibile rilevare questo effetto su un raggio di luce che sfiora la superficie del Sole, in determinate circostanze, come per esempio durante un'eclissi totale di Sole. Immaginiamo che in un determinato momento dell'anno una stella si trovi esattamente dietro il Sole, e che alcuni dei suoi raggi ne sfiorino la superficie per poi raggiungere la Terra. In questo caso saremmo in grado di vedere dietro al Sole. In una situazione normale la luminosità del Sole ci impedirebbe di osservare la stella ma, durante un'eclissi totale di Sole, la Luna si frappone tra noi e il Sole celandone i raggi e consentendoci di vedere la stella. La massa della Luna è notevolmente inferiore a quella del Sole, quindi il suo effetto è trascurabile. Questo esperimento è stato condotto per la prima volta nel 1919: le fotografie scattate durante l'eclissi fornirono una conferma convincente delle previsioni della Teoria della Relatività generale e, da un giorno all'altro, Albert Einstein divenne uno scienziato famoso in tutto il mondo.


Vogliamo ora considerare alcune delle sue anticonvenzionali concezioni sul posto dell'uomo nel mondo e il suo modo di concepire la mente.
Una delle caratteristiche fondamentali di Einstein fu il suo modo di dare l'impressione di vivere la sua fisica. Il suo esempio demolisce completamente l'idea che la fisica sia una questione puramente intellettuale
La fisica non era per lui un'arida routine: era il suo tentativo di comprendere il lavoro di Dio.
Le scoperte di Einstein hanno introdotto nella fisica una nuova unità, come osserva Bronowski, composta da un'inestricabile triade: l'evento, l'osservatore e il segnale che li collega tra loro.

La fisica non consiste di eventi; consiste di osservazioni, e fra l'evento e l'osservatore deve passare un segnale (per esempio un raggio di luce, un'onda o un impulso) che semplicemente non può essere eliminato dall'osservazione... Evento, segnale e osservatore: è questa la relazione che Einstein vide come l'unità fondamentale nella fisica. La Relatività è la comprensione del mondo non come eventi ma come relazioni .

Pertanto, nella Relatività speciale, gli individui partecipano all'immagine del mondo soltanto per essere inclusi in qualcosa di più grande dei sé individuale. A meno che non ci si spinga oltre il sé, non si ottiene alcuna immagine del mondo. Questa sconvolgente teoria, dimostrata al di là di ogni dubbio e universalmente accettata, si armonizza alla perfezione con la concezione di Einstein secondo cui gli individui s'inseriscono in unità sempre più grandi: e, in questo modo, si connettono, come affermò, «con tutti gli esseri viventi».
Procedere oltre la prigione dell'individualità fino a una consapevolezza esperienziale di questo «tutto significante» era per Einstein un grande compito nella vita, che egli descrive in un passo molto spesso citato: Un essere umano fa parte della totalità che noi chiamiamo «universo», è una parte limitata nello spazio e nel tempo. Egli percepisce i suoi pensieri e sentimenti come qualcosa di separato dal resto: una sorta d'illusione ottica della sua coscienza. Questa illusione è per noi una specie di prigione e ci limita nelle nostre decisioni personali e nell'affetto per le persone che ci sono più vicine. Il nostro compito dev'essere quello di liberarci da questa prigione allargando la portata della nostra affettività fino ad abbracciare tutti gli esseri viventi e l'intera natura nella sua bellezza .
Il vero valore dell'essere umano è determinato principalmente dalla misura e dal modo in cui ha ottenuto la liberazione dal sé.
Un'inequivocabile promessa d'immortalità è presente nelle idee di Einstein, idee che scaturiscono dalle interpretazioni del tempo formulate dalla fisica moderna, in cui esso è privato del suo carattere esterno, fluido, lineare. Sulla base di queste concezioni, sorgono concetti completamente nuovi di passato, presente e futuro: viene inoltre a cadere il concetto di morte come evento ultimo, finale.
Nel 1905 Einstein pubblicò il suo trattato sulla Relatività speciale. Alla fine di questo saggio, destinato a cambiare per sempre i nostri concetti di spazio e di tempo, egli ringraziò Michele Besso, suo intimo amico fin dai tempi in cui lavoravano insieme nell'Ufficio Brevetti di Berna; con lui aveva allora discusso ed elaborato le proprie idee ancora allo stadio embrionale. La loro profonda amicizia durò tutta la vita e nel 1955, quando Besso mori, Einstein scrisse ai famigliari una lettera con cui esprimeva le sue idee sull'immortalità: La nostra amicizia aveva come fondamento i nostri anni di studio a Zurigo, dove c'incontravamo regolarmente alle manifestazioni musicali... più tardi l'ufficio brevetti ci unì nuovamente. Quando tornavamo a casa insieme, le nostre conversazioni erano di un fascino indimenticabile... E ora mi ha preceduto di poco dando addio a questo strano mondo. Ciò non significa nulla. Per noi fisici credenti la distinzione fra passato, presente e futuro è soltanto un'illusione, anche se dura a morire. E' facile trovare conferma della natura della mente non localizzata, affine all'anima, fra poeti, mistici e filosofi; si possono anche aggiungere all'elenco pochi scienziati che, di tanto in tanto, si sono trastullati con l'idea. Ma è estremamente raro trovare uno scienziato contemporaneo di spicco, che abbia apportato contributi fondamentali alla sua disciplina e che abbia anche apertamente dichiarato che la mente è universale.
Così ha fatto Henry Margenau, professore emerito di fisica e filosofia naturale presso l'Università di Yale. Nel quadro di una carriera d'illustre teorico di fisica molecolare e nucleare, il professar Margenau diede l'avvio a una ricerca sui fondamenti filosofici della scienza naturale.

Il professar Margenau ha ampliato la visione del mondo del laboratorio di fisica suggerendo che la scienza accenna a una realtà che possiede un suo peculiare significato non solo quando si lavora in un laboratorio di fisica ma anche quando si contrattano azioni in borsa, si attraversa la strada o si sbrina il frigorifero. Una visione dei mondo che espande lontano il suo raggio d'azione ed è onnicomprensiva, contenendo tutte le visioni del mondo sussidiarie, utilitarie, quelle in cui continuiamo a entrare e uscire nella nostra vita quotidiana. Margenau è certo che sia possibile parlare con il linguaggio del fisico a proposito dell'unità che abbraccia distanti livelli di natura grazie alle rivelazioni della scienza moderna. Per dimostrare di non essere il solo a nutrire questa convinzione, accenna alle intuizioni di due figure di primaria grandezza nella fisica moderna, Werner Heisenberg e David Bohm. Poco prima della sua morte, Heisenberg pubblicò un saggio contenente l'ipotesi che certi concetti fondamentali, meccanicistici, di senso comune, come «composto» e «dotato di parti distinte e nominabili», possano essere privi di significato per le verità ultime a cui la fisica cerca di arrivare. E il fisico Bohm espresse la stessa sensazione. «Così», affermò, «si arriva a una nuova nozione di totalità ininterrotta che nega l'idea classica di analizzabilità del mondo in parti esistenti separatamente e indipendentemente». E anche se il "pensare in termini di parti" si è arrestato al livello degli atomi Margenau pone un interrogativo fondamentale: questo tipo di negazione [la negazione della separabilità in parti] dovrebbe anche essere necessaria per la coscienza, per la mente, così che il problema di menti separate, che compongono la Mente Universale o che a essa si aggiungono, possa assumere un significato?

Certi filosofi che contribuirono ai Veda e alle Upanishad (testi sacri orientali) darebbero una risposta chiaramente affermativa, e le testimonianze dei mistici sulle proprie esperienze estatiche di fusione con Dio forniscono una prova ulteriore della natura innumerevole delle anime.

Questi grandi fisici suggeriscono che il concetto di totalità non si limita agli atomi. Se «pensare in termini di parti» è inappropriato al livello degli atomi, lo è anche al livello delle menti. E che cos'è la mente senza parti? E' la Mente Una o Mente Universale, il «Tao, Logos, Brahman, Atman, l'Assoluto, Mana, Spirito Santo, Weltgeist, o semplicemente Dio». Per Margenau, il fatto che noi tutti percepiamo lo stesso mondo in modo unico è una prova dell'esistenza della Mente Universale. Certo, la visione che ciascuno ha della realtà non è precisamente identica, come ampiamente documentato da decenni di esperimenti di psicologia della percezione. Eppure esiste un'approssimativa, ma indubitabile analogia tra le nostre visioni; possiamo comunicarci esperienze condivise riguardanti il nostro mondo senza eccessiva difficoltà.
Ora, come giudicare il fatto che noi condividiamo collettivamente una visione coerente del mondo? Questo fatto è profondamente importante, afferma Margenau: dopo che noi introiettiamo stimoli, alla fine, essi vengono trascritti... [in una] realtà fisica, essenzialmente uguale per tutti... [Questa] unità del tutto se ricordiamo che la materia è una costruzione della mente implica l'universalità della mente stessa.

Questa importante possibilità viene continuamente ignorata da psicologi della percezione, neurologi e filosofi della mente. Se, come ammette la moderna neuroscienza, noi non conosciamo nulla se non attraverso i sensi, perché allora non esiste un mondo diverso per ciascun cervello? I cervelli non sono identici neppure nei gemelli monozigoti. Lo stesso cervello, d'altra parte, da un momento all'altro, può percepire gli stessi stimoli in modo diverso ed elaborare una diversa visione del mondo. Quando consideriamo quanto potrebbero essere radicalmente differenti le immagini create dai nostri cervelli, è straordinario che invece le nostre visioni del mondo si rivelino tanto coerenti.

Il motivo per cui sono coerenti, spiega Margenau, non è perché i nostri cervelli sono simili o funzionano allo stesso modo, ma perché le nostre menti sono una.

Ci vuole una singola coscienza per comporre una visione singola del mondo, specie quando tale immagine viene assemblata dai circa 5 miliardi di cervelli esistenti sul nostro pianeta. Soltanto la Mente Una, la Mente Universale, potrebbe pervenire a un simile risultato. Per poter agire in questo modo, deve essere non localizzata nel senso di essere al di là di cervelli e corpi individuali. Se la Mente Una non elaborasse l'enorme mole di dati sensoriali percepiti ogni minuto dall'oceano di cervelli esistenti sulla terra, potremmo aspettarci la formazione di immagini del mondo talmente diverse da essere incomunicabili.

Qualcuno obietta che l'immagine da noi percepita della realtà è una perché esiste solo un mondo da cui trarla.
Questa concezione è improntata a un ingenuo realismo.

Margenau e i fisici moderni in generale ci chiedono di superarla, perché non c'è una realtà «là fuori» da poter considerare totalmente esterna, obiettiva e uguale per ciascuno. Esiste un aspetto della realtà che è più profondo degli oggetti «esterni» e che deve includere la mente. In ultima analisi questa è la realtà dell'Uno, la Mente Universale che, nella sua più onnicomprensiva espressione.

La visione della Mente Una concorda con la fisica moderna e con molte delle grandi tradizioni spirituali dell'umanità.
Se l'Uno è veramente questo, se è Uno, allora noi siamo parti di esso: ma non soltanto una «parte», perché allora noi violiamo la relazione non duale contro cui Wilber ci mette in guardia.

In ultima analisi, dobbiamo andare oltre all'idea che la nostra mente sia una parte di qualsiasi altra cosa: riconoscendo, come disse il fisico Schródinger, che a un certo livello noi siamo la Mente Una. Infatti se qualcosa fosse all'esterno di essa, compresi noi stessi, essa non potrebbe essere l'Uno: totale, completo, ultimo. Margenau, come Schródinger, si rende chiaramente conto delle implicazioni spirituali dell'assorbimento della «parte» nel tutto. E' in causa niente di meno che la relazione dell'umanità con Dio. Come egli afferma: "Se le mie conclusioni sono corrette, ciascun individuo è parte di Dio o parte della Mente Universale. Uso la frase «parte di» con esitazione, ricordando il suo carattere approssimativo e la sua inapplicabilità perfino nella fisica recente. Forse un modo migliore di presentare la situazione è dire che ciascuno di noi è la Mente Universale ma afflitto da limitazioni che oscurano tutto fuorché un'esigua frazione dei suoi aspetti e proprietà".

Nelle scienze che studiano la vita, come la biologia e la medicina, gli scienziati non sono abituati a trattare con entità non materiali.
La frase stessa fa pensare a fantasmi e spiriti. Ma nella fisica moderna la situazione è diversa. Qui gli scienziati hanno concetti che si applicano a molte entità non materiali, molte delle quali sono chiamate campi; anche se questi non sono materiali, per la maggior parte sono tuttavia associati con la materia. Essi comprendono, per esempio, il campo di flusso di un liquido in movimento, i campi elettrici ed elettromagnetici che circondano i corpi, i campi di temperatura dell'atmosfera e i campi di tensione all'interno di un solido compresso.
Esistono però altri campi che non richiedono la presenza della materia per avere significato. Essi non sono connessi a cose materiali e non potrebbero mai essere chiamati materiali: per esempio, il campo metrico nella Relatività generale, i campi di radiazione e parecchi campi astratti che si hanno in fisica nucleare.
Inoltre ci sono i campi di probabilità, che sono, come dice Margenau, fra gli elementi «osservabili» fondamentali in fisica quantistica insieme con quantità come posizione, velocità, massa ed energia.
I campi di probabilità caratterizzano l'essenza della fisica quantistica, e svolgono un ruolo chiave nel modello di Margenau della Mente Universale.
L'idea che la mente potrebbe essere un campo non materiale, in grado di produrre mutamenti fisici nella realtà, non è stata accolta con entusiasmo dalla biologia moderna.
I biologi solo con riluttanza stanno cominciando a rendersi conto, ammesso che lo facciano, che la mente non è fisicamente dipendente dal cervello e dal corpo e che non può essere compresa completamente in termini di chimica del cervello e di anatomia. Il fisico inglese Paul Davies osserva: «La fisica, che ha aperto la strada a tutte le altre scienze, ora si sta muovendo verso una concezione della mente più accomodante, mentre le scienze della vita, seguendo il sentiero tracciato dai fisici del secolo scorso, stanno cercando di abolirla del tutto e cita l'osservazione del bioscienziato Harol questo «curioso rovesciamento»: quello che è successo è che in biologia un tempo ferventi sostenitori di un ruolo privilegiato per la mente umana nella gerarchia della natura, si sono spostati implacabilmente verso il crudo materialismo che caratterizzò la fisica del diciannovesimo secolo. Nello stesso tempo, i fisici, di fronte a prove sperimentali inoppugnabili, si sono allontanati da modelli strettamente meccanicistici dell'universo, avvicinandosi a una visione secondo cui la mente ha un ruolo integrante in tutti gli eventi fisici. E' come se queste discipline si trovassero su due veloci treni lanciati in direzioni opposte e non vedessero quello che sta succedendo in mezzo ai binari.

Benché eretica, se osservata secondo l'ottica del materialismo biologico moderno, la visione di Margenau sulla natura non materiale della mente troverebbe un'accoglienza favorevole presso alcuni dei più grandi fisici del nostro secolo. Niels Bohr ha dichiarato: «Noi non possiamo trovare nulla in fisica o in chimica che abbia un sia pur remoto rapporto con la coscienza». Anche il suo contemporaneo Werner Heisenberg, il creatore del principio d'indeterminatezza nella fisica moderna, ha esposto la questione in termini categorici: «Non può esserci dubbio», ha affermato, «che la coscienza non esista in fisica e in chimica, e io non riesco a vedere come si potrebbe desumerne l'idea dalla Meccanica quantistica». Ciascuno a suo modo, questi fisici, Bohr, Heisenberg e Margenau, hanno assunto essenzialmente la stessa posizione: la coscienza non può essere pienamente spiegata dalle scienze fisiche così come sono attualmente intese.

Ecco una grossa riserva che molti biologi e filosofi avanzano nei confronti delle concezioni di Margenau riguarda la natura non materiale che egli attribuisce alla mente. Come può un'entità non materiale che è totalmente indipendente dalla materia fare una qualsiasi cosa? Possono delle «cose» non materiali agire su cose materiali? Margenau suggerisce la possibilità irrazionale che cose immateriali possano far muovere cose materiali. Ma nella Meccanica quantistica l'irrazionale ha finito per essere ammesso: le interazioni fra il non materiale e il materiale sono ormai date per scontate. Come osserva Marenau, «è noto che le interazioni fra l'immateriale e il materiale avvengono, anzi abbondano [nella fisica moderna]. Ogni motore elettrico dipende da esse... [Ed] entità elusive come i campi di probabilità, un costrutto puramente matematico...influenzano il comportamento di entità atomiche.
Com'è possibile che avvenga questa interazione a doppio senso di circolazione fra mente non materiale e cervello materiale?
Nella situazione tipica, quando una certa attività si compie fra due entità interagenti fra loro, si trasferisce un certo quantitativo di energia. Ma non tutte le interazioni che avvengono nel mondo fisico sono nella natura degli scambi di energia.
Esistono, per esempio, i meccanismi di controllo o di guida, in cui nessuna attività viene espletata e quindi nessun quantitativo di energia è trasferito. Un esempio citato da Margenau è quello di un treno che descrive una curva: i binari premono contro le ruote del veicolo, esercitando una forza, ma la forza è perpendicolare allo spostamento, e quindi nessuna attività viene compiuta. Qui è fondamentale rendersi conto che nozioni ordinarie di ciò che comunemente significa per un sistema «compiere attività» su di un altro possono non essere più valide.
Quando in natura delle entità interagiscono, l'energia totale del sistema interagente prima e dopo che abbia luogo l'interazione rimane la stessa (l'energia si «conserva»). Tuttavia, osserva Margenau, nel mondo della fisica quantistica, ciò non è sempre vero: ci sono casi in cui il principio della conservazione di energia nella sua forma abituale non regge; come esempio si potrebbe accennare al passaggio degli elettroni attraverso delle barriere... e forse il fatto più miracoloso di tutti è che una massa fisica può essere creata dal nulla senza contraddire le leggi della fisica.

Questo spalanca una porta a favore dell'influenza della mente non materiale sul cervello materiale, senza che la mente debba intervenire con un certo quoziente di energia da spendere nel processo.
Il quadro che emerge dalle osservazioni di Margenau, quindi, è questo: la mente non materiale può essere completamente libera e indipendente dal cervello fisico, eppure pienamente in grado d'influenzarlo, senza dover fornire alcun quantitativo di energia nell'interpretazione.

Questa possibilità, per tanto tempo negata in biologia, è pienamente permissibile nella fisica moderna in perfetto accordo con principi noti e senza violare nessuna legge.
Margenau si sofferma sul modo in cui l'interazione mente-cervello può manifestarsi in sistemi fisici complicatissimi come il cervello, i neuroni e gli organi sensori, le cui componenti sono abbastanza esigue da essere governate da leggi quantistiche probabilistiche, l'organo fisico è sempre calibrato per una moltitudine di possibili mutamenti, ciascuno con una definita probabilità: se avviene un cambiamento che richiede energia... l'intricato organismo la fornisce automaticamente. Di conseguenza, anche se la mente non ha nulla a che fare con il cambiamento, cioè se c'è interazione fra mente e corpo, alla mente non è richiesto di fornire energia.

Quindi la risposta al perenne problema di come la mente non materiale fornisca energia per influire sul cervello o sul corpo materiale può essere questa: non la fornisce. L'energia può provenire dal cervello.

Che «aspetto» potrebbe avere una Mente Universale? Di questa Mente, Margenau afferma: "La sua conoscenza comprende non solo l'intero presente ma anche tutti gli eventi passati. Più o meno come il nostro pensiero può esplorare l'intero spazio e giungere a conoscerlo, così la Mente Universale può viaggiare avanti e indietro attraverso il tempo a volontà" .

Se le nostre menti fanno parte di questa Mente Universale, anche loro, come essa, sono non localizzate nel tempo e nello spazio. Ma, se le cose stanno così, perché ci sentiamo così localizzati? Perché avvertiamo un senso così schiacciante del presente e un così pesante senso di limitazione a questo spazio immediato? Perché ci sentiamo cosi individuali, imprigionati nei nostri corpi? Perché dovremmo essere cosi tormentati, come lo siamo stati per millenni, dal problema di scoprire se siamo dotati di una qualsiasi libertà di coscienza o se la nostra vita sia predeterminata?
Queste non sono caratteristiche che ci aspetteremmo di trovare in menti che fanno parte di una Mente Universale, non localizzata.

Margenau crede che in noi il senso della nostra universalità sia indebolito dalle limitazioni fisiche del corpo.
Eppure queste limitazioni fisiche non sono assolute, e nell'intero corso della storia molte persone sono riuscite a superarle. Tutte le grandi tradizioni spirituali abbondano di prove del fatto che, se vengono seguite certe prescrizioni, la natura universale, non localizzata di una persona emerge.
Ma le limitazioni sono reali.
Una delle più angosciose è il nostro modo rigido di percepire il tempo. Margenau usa la metafora di «fessura di tempo» per enfatizzare la nostra capacità di vedere solo una fetta piccolissima dell'intero panorama del tempo. Così come possiamo vedere soltanto una banda ristretta dell'intero spettro elettromagnetico che chiamiamo «luce», analogamente possiamo percepire solo un esiguo frammento del tempo, che chiamiamo «l'adesso».
Questa limitazione nella coscienza della totalità del tempo contribuisce al nostro senso di essere intrappolati e alla deriva nel tempo. di essere limitati a un solo arco di vita e di sentirci disperatamente mortali, destinati alla morte.
Un'altra grave limitazione che c'impedisce di usare le nostre menti in senso universale e non localistico è ciò che Margenau chiama il «muro personale».
Il muro personale «produce il senso prevalente d'isolamento individuale e ci dà un'identità oltre che un ego».
Il peggiore dei suoi possibili effetti è quello di creare un senso d'isolamento e di solitudine, che può essere totalmente oppressivo e morboso, perfino mortale.
Ma, come abbiamo visto abbondantemente nei capitoli precedenti, né la fessura di tempo né il muro personale sono assoluti. In alcune circostanze, molte delle quali possiamo imparare a controllare, essi possono diventare «più o meno opachi».
Oltre alla fessura di tempo e al muro personale, che inibiscono la nostra identificazione con la Mente Universale, c'è ancora un altro impedimento che influenza in modo cruciale il carattere della nostra condizione umana: il «muro stocastico».
La parola «stocastico» deriva dal greco stochos, che designa un «obiettivo», uno «scopo» o una «congettura». Questo termine esprime il fatto che nella condizione umana sono insite casualità e incertezza. E chi può negarlo? Nessuno realmente vive la sua vita come se fosse fissa e determinata, neppure le persone che professano di credere nel determiniamo.
Margenau suggerisce che il motivo per cui le nostre vite ci sembrano essere permeate dall'incertezza è che il mondo al livello invisibile, silenzioso, subatomico è incerto; questa però non è una condizione miserabile: anzi, è vero il contrario.
Infatti è proprio l'incertezza del mondo che permette perlomeno la possibilità del libero arbitrio. Oltre all'incertezza però è necessario un altro elemento: la scelta.
Quindi, sostiene Margenau, sono necessari due elementi perché la libertà umana sia una realtà: la scelta e la possibilità di agire.
Per Margenau, non esistono limitazioni al più elevato livello della Mente: la Mente Universale non ha fessura di tempo, nessun muro personale; la sua conoscenza non è limitata da probabilità quantistiche ... la Mente Universale non ha bisogno di memoria, poiché tutte le cose e tutti i processi, passato, presente e futuro, sono da essa afferrabili

La metafora di Margenau della fessura di tempo è ricca d'implicazioni per i processi di conoscenza umani, per esempio la facoltà della memoria. Più è larga la fessura, meno limitati siamo nel tempo, più ricordiamo. Se i bordi della fessura di tempo sono netti, la nostra memoria è nettamente definita da determinati punti nel tempo; se invece sono imprecisi, la nostra memoria sarà inesatta in modo corrispondente. Tutti i problemi noti riguardanti la memoria possono essere metaforicamente concepiti come prodotti da variazioni nella nettezza dei bordi della fessura di tempo o da fluttuazioni nella sua ampiezza. Per tutti questi problemi di memoria c'è una cura: il ritorno della mente individuale, con la sua fessura di tempo, alla Mente Universale, che non ha nessuna fessura.
Non solamente il concetto di fessura di tempo ma anche quello di muro personale è responsabile di molte malattie umane. In certi stati di schizofrenia, il muro personale si dissolve in modo drammatico a un punto tale che il paziente non riesce più a distinguere se stesso da altre persone o da altre cose. Inoltre, la fessura di tempo può anche dilatarsi tanto da demolire in una persona il suo senso di passato, presente e futuro. Il muro stocastico può anche crollare e il senso di scelta e libertà può divenire distorto. Un individuo può pensare di avere un controllo totale di tutti gli eventi manifestando questa convinzione con allucinazioni messianiche o credendo di essere letteralmente Dio incarnato. Oppure il muro stocastico può diventare ipertrofico, reso più spesso e più alto, tanto che la persona si sente completamente paralizzata, incapace di scegliere o agire nei modi anche più semplici.
Spesso, però, queste limitazioni possono variare nelle vite di persone del tutto comuni, non solo di schizofrenici. Per esempio, la fessura di tempo può dilatarsi in modo tale da permettere la precognizione o la preveggenza. Oppure il muro personale può abbassarsi tanto da consentire un'esperienza di sana empatia o connessione con altre persone ed esseri viventi. Così Margenau descrive questo processo: [L'abbassamento del muro personale] accresce la nostra identità con gli altri. Questo abbassamento del muro può avvenire in casi di straordinaria simpatia e amore per gli altri, di empatia spontanea attraverso l'attenzione concentrata, in meditazioni, in sogni, in esperienze personali che... rivelano realtà alternative. Può avvenire nella preghiera, quando un individuo si fonde con la Mente Universale. L'abbassamento del muro personale può permettere la percezione extrasensoriale sotto forma di incontro di informazioni, magari sotto forma di lettura del pensiero . E' quindi errato enfatizzare soltanto la natura negativa delle fluttuazioni della fessura di tempo e dei muri personale e stocastico, perché molte persone giudicano queste condizioni genuinamente spiritualizzanti e appaganti.
Stiamo assistendo ad una consacrazione da parte della fisica a quello che noi già avevamo appreso!
Da millenni si conoscono metodi per provocare intenzionalmente queste fluttuazioni. Le più grandi tradizioni spirituali del mondo forniscono prescrizioni che, se seguite, modificano radicalmente l'ampiezza della fessura di tempo e la rigidità e l'altezza del muro personale.
Esse ci insegnano quindi come realizzare gli aspetti eterni e infiniti del nostro essere: per arrivare a conoscere la mente ctonica, la Mente Universale, il Tao, l'Assoluto, l'Uno.
Ma, se una persona non si trova su uno di questi sentieri spirituali che sono stati ormai controllati e hanno resistito alla prova del tempo, l'improvviso dilatarsi della fessura di tempo o il crollo del muro personale possono essere disastrosi.
Il confronto inatteso con la realtà non localizzata può essere sconvolgente e totalmente devastante. Forse la più tumultuosa espressione di questa esperienza si determina attraverso l'uso di droghe; in questo caso la fessura di tempo può essere squarciata e il muro personale demolito in pochi attimi. A seconda di molti complessi fattori, un soggetto può descrivere questa esperienza come estasi, consapevolezza superiore o puro e semplice terrore; alcuni si sono perfino suicidati per aver preso un contatto improvviso e inatteso con la realtà non localizzata con l'assunzione di droga. Di conseguenza, la decisione di toccare questa parte del proprio sé non dovrebbe essere mai presa a cuor leggero. L'esperienza dovrebbe essere sempre affrontata in uno spirito di rispetto come una ricerca della Verità e mai, mai, come puro svago. Come ha osservato il mitologo Joseph Campbell: «La differenza è che la persona che non si regge a galla annega nell'acqua in cui il mistico nuota. E' necessario essere preparati per questa esperienza».

Margenau raccomanda quindi di portare rispetto alla fessura di tempo e al muro personale, poiché «c'è un senso profondo in cui queste realtà sono benedizioni in un'esistenza umana finita», anche se limitano la nostra consapevolezza, nondimeno ci aiutano a mantenerci intatti finché non siamo pronti a intraprendere la ricerca che è il nostro vero scopo.
Alla fine, comunque, la fessura di tempo deve allargarsi e i muri personale e stocastico devono abbassarsi se vogliamo realizzare la nostra natura universale, non localizzata; non si sottolineeranno mai abbastanza le implicazioni spirituali di un'attenuazione di queste restrizioni.
L'abbattimento totale dei muro personale e l'allargamento all'infinito della fessura di tempo possono permettere a una persona di fondersi con l'Uno. Margenau descrive le sensazioni che tale fusione potrebbe suscitare: "Ciò che... intendo dire è che il sé conscio tornerà alla sua origine presunta, cioè la Mente Universale, e da ciò sembra derivare che, come parte di Dio, il sé conscio ha la facoltà di rivisitare tutti gli aspetti della sua esperienza terrena, e forse anche la possibilità di dimenticarli e di consegnarsi all'oblio (o addirittura all'estinzione). Ma il pensiero cruciale, l'attesa di una riunione con Dio, contiene già una qualche consolazione, e la speranza, anzi, la promessa della morte come esperienza unica" .

Riepilogando, la visione di Margenau è nella tradizione dei fisici Schródinger e Bohm. Il conflitto fra la scienza e 1'eterna ricerca spirituale dell'umanità risiede nel fatto che la scienza non è stata spinta abbastanza lontano. Se le nostre interpretazioni del mondo fisico sono di corto respiro, come nella visione classica del mondo, noi vediamo noi stessi in un quadro parcellizzato che va alla deriva, verso una fine nel tempo. Se invece seguiamo le implicazioni della visione moderna dell'universo, possiamo nonostante tutto affermare le perenni intuizioni dei nostri più grandi visionari: noi siamo eterni, infiniti e Uno.
Un "UNO" immortale che contiene il tutto!
E' questo concettualmente possibile?
Vediamo di scoprirlo.
La parte contiene il tutto: molti esempi di questa asserzione ci circondano!
Una quercia gigantesca che produce una ghianda in cui si trovano tutte le informazioni per replicarsi; la quercia successiva, che ripropone lo stesso modo di produrre le proprie ghiande per replicare se stessa e così via, all'infinito.
Il modello di ciascun essere umano, prestabilito nei geni dello sperma e delle ovaie, informazioni miniaturizzate e contratte incapsulate nella parte, eppure sufficienti a ricostruire l'intero.

L'idea che la parte contenga l'insieme è antica, ma nell'epoca moderna ha ricevuto una legittimazione scientifica. Questa affermazione è così audace che verrebbe senz'altro liquidata come destituita di ogni fondamento se non fosse per la statura scientifica del suo principale assertore, David Bohm. Già collaboratore di Einstein, Bohm professore, di fisica teoretica al Birkbeck College dell'Università di Londra, rimane uno dei più eminenti fisici teoretici.
Bohm sostiene, che le informazioni dell'intero universo sono contenute in ciascuna delle sue parti. Egli afferma che esiste in fotografia uno stupefacente esempio di questo principio: l'ologramma (letteralmente «messaggio globale»). Si tratta di un'immagine costruita in modo particolare che, illuminata da un raggio laser, sembra fantasmagoricamente sospesa nello spazio tridimensionale. La caratteristica più incredibile di un ologramma è che ciascuna sua parte, se illuminata da una luce coerente, fornisce un'immagine dell'intero ologramma. Le informazioni circa l'intero sono contenute nella parte. Questo principio, afferma Bohm, si estende all'universo in generale.

Dato che Bohm ricorre di frequente all'analogia dell'ologramma, forniremo una breve descrizione del processo. La teoria matematica su cui si basa fu sviluppata inizialmente negli anni Quaranta da un premio Nobel, il fisico Dennis Gabor. Quando all'inizio Gabor propose la teoria, gli ologrammi non potevano essere costruiti, bisognò aspettare per questo l'invenzione del laser venti anni dopo.
Gli ologrammi sono creati mediante una sorta di fotografia senza lenti. E' necessaria una luce coerente con onde approssimativamente della stessa frequenza, viaggianti in fase e nella stessa direzione. Questa luce, prodotta da un raggio laser, viene fatta passare attraverso uno specchio per metà argentato che permette a una parte della luce di passare direttamente a una lastra fotografica. Questo è il raggio di riferimento. Lo specchio riflette la porzione rimanente della luce verso l'oggetto che dev'essere olografato. L'oggetto riflette la luce verso la lastra che registra, ma le sue irregolarità di superficie, forma e colore disturbano la coerenza della luce. Così, quando il raggio oggetto raggiunge la lastra, il suo schema di vibrazione non collima più con il raggio di riferimento. Le onde frontali dei due raggi interagiscono o interferiscono fra loro, e lo schema composito d'interferenza è ciò che la lastra fotografica registra come ologramma.
Emerge ora la caratteristica veramente unica degli ologrammi. Diversamente da un negativo fotografico o da una diapositiva, nessuna immagine è visibile sulla lastra sviluppata. Ma quando un raggio di luce coerente viene fatto passare attraverso la lastra, un osservatore sul lato opposto della stessa vede una sbalorditiva «immagine» tridimensionale dell'oggetto originario, sospesa nello spazio. E se ciascun pezzo dell'ologramma viene illuminato con luce coerente avviene lo stesso fenomeno. Più piccolo è il pezzo, più l'immagine diventa dettagliata; ma l'intera rappresentazione dell'oggetto originario è contenuta in ciascuna porzione dell'ologramma.
Bohm ipotizza che l'universo sia costruito sugli stessi principi dell'ologramma, e adduce a sostegno della sua teoria concetti tratti dalla fisica moderna. Nella moderna visione della fisica il mondo non è composto da frammenti individuali, ma è visto come un complesso indivisibile di modello, processo e interrelazione. L'aspetto del mondo che comunemente percepiamo è formato tuttavia da parti isolate, che ci appaiono sconnesse e prive di relazione tra loro. Eppure per Bohm questo è un'illusione e una distorsione dell'unicità e dell'unità che stanno alla base di tutto e che sono una qualità intrinseca del mondo.
Questa unità, afferma Bohm, «abbraccia» l'universo. espressione di un ordine implicito: cioè, come dice Bohm, un ordine «implicito» di onde elettromagnetiche, onde sonore, raggi elettronici e numerose altre forme di movimento che Bohm definisce «olomovimento».
Gli scienziati, naturalmente, selezionano certe sfaccettature dell'olomovimento per studiarle: elettroni, protoni, suono, e così via,... ma, più generalmente, tutte le forme dell'olomovimento si fondono e sono inseparabili. Così, nella sua totalità, l'olomovimento non è assolutamente limitato in nessun modo specifico. Non è necessario che si conformi a nessuna particolare misura. Quindi, l'olomovimento è indefinibile e non misurabile.

Per illustrare come l'ordine possa risultare nascosto o ravvolto in sé, non percepibile dall'occhio, Bohm usa un semplice esempio. Immaginiamo due cilindri di vetro concentrici separati da uno spazio riempito di un liquido vischioso, per esempio della glicerina. Questo apparecchio può essere fatto ruotare meccanicamente con grande lentezza, in modo da evitare che la glicerina trabocchi. Supponiamo di mettere nella glicerina una goccia di inchiostro nero non solubile e facciamo ruotare il tutto molto lentamente. Gradualmente la goccia nera si tenderà in un filo sempre più sottile, fino a diventare invisibile. Poi, se si comincia a far ruotare l'apparecchio nella direzione opposta, la goccia d'inchiostro nero si ricostruirà gradualmente, rendendosi di nuovo visibile. La goccia d'inchiostro prima era diventata ravvolta, invisibile a occhio nudo. Non faceva parte della realtà svolta che potevamo vedere. Eppure era sempre presente in senso implicito e, invertendo la direzione della rotazione del cilindro, si è resa la goccia di inchiostro esplicita, sensorialmente visibile.
Spingendosi più oltre, Bohm suggerisce che ologrammi possono essere onnipresenti in natura. Anche se sono costruiti artificialmente mediante l'interferenza di onde frontali di luce che vanno a colpire una lastra fotografica, è possibile che questo fenomeno generale possa essere registrato in altri modi. Dopo tutto, la luce è soltanto una delle espressioni dei fenomeni d'onda. Le onde sono comunissime in natura, e l'olomovimento di Bohm ne conosce molti tipi.
I raggi elettronici sono in grado di creare ologrammi, e lo stesso possono fare le onde sonore, o «qualsiasi forma di movimento», compresi «movimenti noti e ignoti». L'universo è permeato di forme d'onda e può darsi, suggerisce Bohm, che noi viviamo in un universo olografico: un olouniverso.
Il tratto essenziale dell'olouniverso di Bohm è un'unità che esiste oltre il mondo visibile nell'ordine implicito. E' un mondo che non possiamo mai realmente conoscere a fondo: noi possiamo apprenderlo, sostiene Bohm, ma non possiamo mai comprenderlo. L'ordine esplicito, il mondo visibile delle cose e degli eventi, è quello in cui noi siamo più coscienti ed è un mondo di manifestazioni. E nella natura delle nostre menti vedere questo mondo esterno come reale, e considerare come valida la separatezza che vi percepiamo.

Inclusa come parte di questa realtà c'è la separatezza nello spazio che avvertiamo fra noi stessi e gli altri, il che rafforza il nostro senso di essere menti separate in corpi isolati.

Il senso di separatezza è fortemente presente anche nel nostro modo di dividere il tempo in compartimenti, presente, passato, futuro, confinando il nostro sé individuale soltanto a uno di essi, il presente. Ma queste separazioni non sono fondamentali. Invece, il nostro mondo è «una struttura singola di connessioni invisibili» in cui tutte le parti, perfino le menti, sono unite. Come Bohm fiduciosamente dichiara: Nel profondo la coscienza dell'umanità è una. Questo è virtualmente una certezza perché anche nel vuoto la materia è una; se non ce ne rendiamo conto è perché chiudiamo gli occhi di fronte a questa verità. Se non stabiliamo queste frontiere assolute fra le menti, allora... è concepibile che esse possano... unirsi a formare una sola mente.

Le concezioni di Bohm si spingono oltre l'unificazione della coscienza; esse portano anche alla conclusione dell'immortalità della mente. La «dimora» della mente, come di tutte le cose, è l'ordine implicito. A questo livello, sede fondamentale dell'intero universo manifesto, non esiste un tempo lineare. Il regno implicito è atemporale; i movimenti non si susseguono l'uno dopo l'altro come grani di una collana. così Bohm conclude: "In ultima analisi tutti i momenti sono in realtà uno solo,... perciò ogni attimo è l'eternità... ogni cosa, me compreso, muore e rivive in ogni istante nell'eternità".

I punti di contatto fra le concezioni di Bohm e quelle di Schródinger sono impressionanti. Anche Schródinger affermò che la vita è uno svolgersi atemporale nel momento presente. In perfetto accordo con Bohm disse: «Ogni giorno essa (la Madre Terra) ti genera, non una sola volta ma migliaia e migliaia di volte, così come ogni giorno ti avviluppa. Poiché eternamente e sempre esiste soltanto l'adesso, l'unico e sempre uguale adesso; il presente è l'unica entità che non ha fine».
Le teorie di Bohm sull'unificazione delle coscienze fanno parte di una tradizione in seno alla fisica moderna che comprende, come abbiamo visto, alcuni dei più stimati scienziati della nostra epoca. Le loro tesi danno credito all'idea di una mente autenticamente non localizzata: una mente che non è limitata dallo spazio e dal tempo, una mente che non è confinata a cervelli o corpi, una mente che alla fine è Una anziché singola e individuale, e una mente immortale.

Ma torniamo ancora alla ghianda della quercia gigantesca: perché ha quella forma?
La forma: da dove proviene? Che cosa spiega la forma delle cose più in generale?

Anticamente questi interrogativi suscitavano un senso di timore reverenziale e meraviglia, ma negli ultimi tempi molto del mistero della forma è svanito. I biologi molecolari ci assicurano che le forme degli esseri viventi sono controllate dal DNA, le molecole direttrici che contengono le informazioni in base alle quali l'intero organismo può essere costruito. Da quando è stato scoperto, da James Watson e Francis Crick, il DNA è stato considerato come il programma completo di ogni organismo vivente.
Che cosa, allora, controlla le forme di oggetti non viventi come i cristalli, le rocce o l'argilla?
Queste materie non possiedono DNA, quindi devono intervenire altri fattori, come le forze atomiche interne alle molecole descrivibili dai fisici moderni. Nei cristalli di quarzo, forze subatomiche interne fanno sì che certi angoli di connessione si formino all'interno degli atomi e delle molecole costituenti e tra di esse. Queste forme contribuiscono non solo alla configurazione interna ma anche alla forma esterna del cristallo. Tutte le molecole, sia negli esseri viventi sia nelle cose inanimate, sono configurate da queste forze.
Le configurazioni interne, forse più di quelle esterne, spiegano il modo di «comportarsi» di queste sostanze nel mondo.
Per esempio, non basta che un amminoacido sia composto di un certo numero di atomi di azoto, idrogeno e ossigeno, è anche necessario che le molecole di amminoacido abbiano la giusta forma, altrimenti il corpo non può usarle. Anche le molecole dei farmaci devono avere la giusta conformazione, altrimenti possono risultare del tutto inefficaci. Il farmaco Ldopa, risolutivo per molti pazienti affetti da morbo di Parkinson, è una di queste molecole.
La molecola a forma di D ha una formula chimica identica a quella a forma di L, cioè risulta composta dagli stessi atomi, nelle stesse percentuali; tuttavia, è inefficace a causa della sua diversa forma e, a causa della sua conformazione, non può adattarsi ai siti ricettori del tessuto su cui è necessario che agisca. Come una chiave storta, la molecola a forma di D non può far girare la serratura per mettere in moto certi processi fisici.

La vita, in poche parole, non può essere compresa senza tenere conto della forma. Che cosa modella una foglia, l'intero albero su cui cresce, la forma del millepiedi che si ciba della foglia, gli uccelli che nidificano nel suo fogliame? Platone suggerì che esistano forme ideali, situate in un mondo di perfezione, da cui gli oggetti del mondo visibile traggono le loro forme. Questo mondo ideale è invisibile ma è onnipotente, modellando come uno scultore invisibile la finale comparsa di tutte le cose.

Gli scienziati che lavorano sul mondo microscopico (per esempio un biologo che dedica l'intera vita allo studio dei neurotrasmettitori chimici nel sistema nervoso di una particolare specie di lumaca) non si curano in genere della forma degli organismi su cui lavorano. Ciò che per loro è rilevante sono la chimica e la fisiologia dei loro soggetti di studio e tali dati possono essere compresi non concentrandosi sulle forme esterne ma scavando sempre più a fondo, con un indefesso e scrupoloso lavoro di analisi.
Invece gli scienziati che studiano organismi nel loro insieme non sono interessati all'analisi, alla dissezione e, a quanto pare, sono diventati più sensibili agli inquietanti interrogativi sulla forma: da dove proviene, e che cosa controlla?
Uno di questi scienziati fu Hans Driesch, un biologo tedesco che sul finire del diciannovesimo secolo apportò contributi fondamentali all'embriologia. Driesch concluse, in base ai suoi studi sui ricci di mare, che le forme degli organismi viventi, la loro rigenerazione e regolazione subiscono l'influenza di un fattore non fisico che chiamò entelechia. Driesch e la sua entelechia furono però snobbati, perché la scienza non vede di buon occhio entità non fisiche.

Secondo un dogma assoluto del pensiero occidentale, una causa deve assomigliare al suo effetto. Perciò non è assolutamente possibile che un'entelechia immateriale possa esercitare una qualche influenza su un oggetto fisico e determinarne la forma. L'idea delle entelechie, quindi, non ottenne mai il minimo credito nel mondo scientifico.

Tuttavia, malgrado l'antipatia di molti scienziati per entelechie, forze guida o forme ideali ed eterne, il problema della forma è rimasto un problema centrale in biologia. Nessuno sa perché, per esempio, una cellula maturi in una cellula di foglia e un'altra in una cellula di gambo, quando entrambe appartengono alla stessa pianta e hanno un DNA identico, o perché in un particolare essere umano una cellula diventi una cellula epiteliale e un'altra una cellula epatica quando il DNA di ciascuna è lo stesso.
La spiegazione ortodossa è che il segreto dev'essere cercato nelle complesse interazioni fra le cellule, controllate e regolate da un codice DNA; un giorno questo segreto verrà svelato.

Agli inizi degli anni Ottanta, un giovane studioso di biologia vegetale, l'inglese Rupert Sheldrake, entrò in questa polemica con una teoria che scosse il mondo scientifico. La sua «ipotesi di causazione formativa» comparve nel suo libro A New Science of Life [Una nuova scienza della vita]. La teoria ha destato reazioni appassionate, sia da parte di sostenitori sia di detrattori. Come Driesch, anche Sheldrake è stato snobbato e attaccato da alcuni suoi colleghi scienziati. Altri l'hanno appoggiato con energia, ritenendo la sua teoria una seria proposta da verificare in sede sperimentale. Se si fosse dimostrata esatta, essa sarebbe assurta al rango di una delle più grandi idee del secolo, anzi dell'intera epoca scientifica.

L'ipotesi di Sheldrake è pertinente alla nostra concezione di mente non localizzata, con cui è anzi estremamente compatibile. La sua idea di causazione normativa suggerisce che la mente umana non sia localizzata nello spazio e neppure nel tempo; che non sia limitata al «qui e adesso»; che sia immortale e non energetica, con il corollario che il suo effetto non venga diminuito dalla separazione spaziale. Nella sua ipotesi la mente è non localizzata in un altro importante modo: non è ristretta al cervello né prodotta da esso, anche se può agire attraverso il cervello, più o meno come l'elettricità agisce attraverso un filo senza essere generata dal filo stesso. L'ipotesi di Sheldrake corrobora l'idea di una coscienza collettiva secondo cui essa può essere immagazzinata collettivamente come una sola mente, fuggendo dalla prigionia del cervello e del corpo di singole persone. Poiché questa ipotesi suggerisce che la mente non è localizzata nello spazio, che può persistere nel tempo e che è oltre il corpo, contiene strabilianti implicazioni circa l'immortalità. Inoltre, secondo l'ipotesi di Sheldrake la coscienza non è necessariamente limitata agli esseri umani. Perlomeno in grandi variabili, può essere condivisa da molte forme di vita oltre che dagli esseri umani.

Rupert Sheldrake studiò scienze naturali presso il Clare College dell'Università di Cambridge, poi passò un anno a Harvard studiando filosofia e storia delle scienze. Ritornò poi a Cambridge dove, nel 1967, si laureò in biochimica e biologia cellulare; infine dal 1967 al 1973 lavorò per il Clare College e fu direttore dell'Istituto di biochimica. Durante il suo soggiorno a Cambridge concentrò le sue ricerche, presso la fondazione Rosenheim della Royal Society, sullo sviluppo delle piante e l'invecchiamento delle cellule. Nel 1974 si recò in India, spinto dal desiderio di applicare la sua formazione scientifica per il bene dell'umanità. Lavorò in questo paese e precisamente a Hydebad fino al 1978, presso l'Istituto internazionale di ricerca sulle coltivazioni nei tropici semi-aridi, dedicandosi alla fisiologia delle piante leguminose tropicali. Per molti anni continuò a trascorrere circa quattro mesi all'anno in India, come consulente di fisiologia vegetale, vivendo in condizioni umili con i suoi colleghi indiani, alla ricerca di tecniche di ottimizzazione dei raccolti, in considerazione del disperato fabbisogno alimentare di molti paesi.
Eppure alcuni dei detrattori di Sheldrake l'hanno dipinto come un filosofo da strapazzo e non un vero scienziato. Al contrario, Sheldrake ha una profonda conoscenza dei più intimi particolari della biologia, sia a livello cellulare sia macroscopico e inoltre si è immerso di proposito nello studio formale della filosofia della scienza, disciplina di cui pochi scienziati possono vantare la conoscenza.

Secondo l'ipotesi di Sheldrake, i sistemi sono organizzati nel modo in cui ora si manifestano perché sistemi analoghi erano organizzati allo stesso modo in passato. Specificatamente, le forme e il comportamento caratteristici di tutti i sistemi chimici, fisici e biologici attualmente esistenti sono guidati e plasmati da campi organizzativi che, come una mano invisibile, agiscono attraverso lo spazio e il tempo. Sheldrake li chiama campi morfogeni (dal greco morphe, forma, e genesis, messa in essere).
I campi morfogeni di ogni sistema esercitano la loro influenza su sistemi successivi mediante un processo chiamato risonanza morfica. Per fare un esempio, si può dire che il motivo per cui una cellula di una pianta diventa una cellula di foglia e non una di radice è perché si sintonizza, per così dire, attraverso la risonanza morfica, con i campi morfogeni di tutte le foglie precedenti della stessa specie. Questo processo si determina per tutti i sistemi riscontrabili in natura.

Le attuali concezioni biologiche divergono molto, naturalmente, da questa visione. Tuttavia l'idea di campi invisibili non è nuova.

Essi rappresentano anzi una parte accettata della fisica contemporanea (per esempio i campi elettromagnetici e gravitazionali). La stessa cosa si può dire per l'azione a distanza (anch'essa un caposaldo della teoria di Sheldrake), come l'attrazione gravitazionale della luna sugli oceani terrestri, che crea le nostre maree. Anche se i campi sono particolarmente comuni nella fisica odierna, non trovano però spazio nella biologia ortodossa.

Un'altra grande differenza fra la proposta di Sheldrake e quella della scienza ortodossa è che questa sostiene che tutti i processi fisici sono guidati attraverso leggi fisiche inviolabili. Queste leggi sono eterne ed esistono al di fuori del tempo. Al contrario, i campi morfogeni esistono nel tempo. Vengono sviluppati con il passare del tempo, sono modificati dalle configurazioni e dalle forme di tutti i sistemi successivi, e si trasmettono attraverso il tempo influenzando futuri sistemi ancora a venire.
Sheldrake non è stato l'unico a contestare l'asserzione che le leggi fisiche sono eterne e immutabili: anche molti altri scienziati operanti entro schemi accettati hanno cominciato a sollevare dubbi circa questo assunto.

Forse la più grande sfida proviene dalle attuali teorie cosmologiche.

E' opinione ampiamente diffusa che l'universo si sia organizzato in quell'inimmaginabile istante chiamato Big Bang; in quest'attimo colossale tutta la materia dell'universo entrò in essere, congiuntamente a tutte le leggi fisiche che ne regolano il comportamento. Poiché prima del Big Bang non c'era niente di materiale o fisico, non ha senso parlare di leggi «fisiche» esistenti allora; d'altra parte, se non esistevano allora, sono derivate e frutto di uno sviluppo, non date per sempre. Viste nella prospettiva della moderna teoria cosmologica, l'idea di Sheldrake che le leggi fisiche non sono immutabili ed eterne ma si sviluppano nel tempo con il «procedere» delle cose, non appare eretica come potrebbe sembrare.

Ma i cosmologi non si spingono così lontano come Sheldrake. Essi suggeriscono che dopo il Big Bang le leggi si siano calcificate; esse sono diventate fisse e da allora non si sono più modificate. invece Sheldrake sostiene che le leggi governanti le forme di tutte le cose sono sempre in trasformazione con il passare dei tempo, dato che i campi morfogeni sono sempre suscettibili di modificazione.
La pubblicazione in Inghilterra di A New Science of Life scatenò un vespaio di polemiche. Sheldrake fu paragonato a Uri Geller, il paragnosta famoso per la sua facoltà di piegare i cucchiai, e fu accusato di essersi «dato al misticismo».
Altri scienziati presero le difese sia delle idee di Sheldrake sia del principio della libertà di ricerca, sostenendo che nessuna idea dovrebbe essere condannata prima di essere vagliata sperimentalmente, per quanto possa apparire bizzarra.

Il fisico Brian Josephson, un premio Nobel, dichiarò: "Sta ora emergendo un nuovo modo di concepire la natura, con concetti come ordine implicito e realtà soggetto-dipendente (e oggi, forse, causazione formativa)".

Nei primi giorni successivi alla sua pubblicazione uno dei più forti sostenitori dell'ipotesi di Sheldrake della causazione formativa fu la rivista inglese New Scientist, che dichiarò coraggiosamente: «La scienza occidentale ha purtroppo creato una falsa costruzione del mondo e delle creature che esso contiene... Quanto Sheldrake propone è scientifico. Ciò non significa che egli abbia ragione, ma che la sua teoria è sperimentalmente controllabile».

Una delle prime persone che negli Stati Uniti riconobbe la potenziale importanza delle idee di Sheldrake fu Marilyn Ferguson, editore e direttore del Brain Mind Bulletin e autrice di un libro che fu accolto con grande favore, The Aquarian Conspiracy: Personal and Social Transformation in the 1980. [Il complotto acquariano: trasformazioni personali e sociali negli anni Ottanta].

La nuova ipotesi iniziale [di Sheldrake] potrebbe capovolgere molti concetti basilari sulla natura e la conoscenza. Nelle sue implicazioni, ha la vastità di portata della teoria dell'evoluzione di Darwin .

Negli esseri viventi, tutti i processi di sviluppo partono da sistemi che hanno già i loro caratteristici modelli di organizzazione. L'embrione che si sviluppa all'interno di un uovo fecondato, per esempio, contiene acidi nucleici e proteine organizzati in modo specifico. Non solo queste sostanze implicano un determinato chimismo (certe formule che descrivono il contenuto molecolare di azoto, carbonio, idrogeno, ossigeno e altri elementi) ma inoltre esistono forme specifiche che hanno già cominciato a prendere forma all'interno delle stesse molecole.

La forma, quindi, inizia ai primi stadi negli organismi viventi a partire dai più interni recessi molecolari. Sheldrake sostiene inoltre che le forme contenute nelle molecole sono plasmate da campi morfogeni che sono già stati sistemati da molecole analoghe di passati sistemi.

Molti visualizzano un campo morfogeno come uno scultore invisibile che lavora dall'esterno dei sistemi, scolpendoli o modellandoli in determinate forme, plasmando qua un braccio e là una penna, facendo un elefante che è un elefante, un salmone che è un salmone, con un suo sistema abile e benefico. Anche se quest'immagine può dare solo una vaga idea della visione di Sheldrake, è possibile concepire il lavoro come compiuto dall'interno anziché dall'esterno, perché i campi morfogeni funzionano come restrizioni schematizzate sulla moltitudine di eventi probabili e indeterminati che avvengono ai livelli più profondi dei sistemi fisici. E' qui, nelle conformazioni più interne assunte dagli atomi e dalle molecole, che i campi morfogeni possono essere innanzi tutto avvertiti.

Questo processo può poi dispiegarsi all'esterno, manifestandosi alla fine nelle forme visibili, esterne, delle cose. Così il processo di causazione formativa può essere considerato come un «lavoro dall'interno», non dall'esterno.
Anche le emozioni e i pensieri possono essere influenzati da questi campi, così come il nostro chimismo interno può influire sui nostri sentimenti.

Questo è il motivo per cui i campi sono potenzialmente così pervasivi e per cui possiamo saltare dagli atomi ai pensieri nel discutere delle loro attività. In effetti, non si ha assolutamente nessun «salto», una volta che comprendiamo l'effettivo funzionamento dei campi: dove i loro effetti iniziano e dove finiscono. Non c'è però realmente una «fine» all'espressione dei campi; infatti, una volta che una qualsiasi persona o un qualsiasi altro essere vivente subisce la loro influenza, la persona o l'essere influiscono a loro volta sui campi stessi, aggiungendovisi con effetto cumulativo.
Tutte le cose, pensieri e comportamenti sono quindi risospinti nel grande processo di avanzamento dei campi morfogeni. Ciò è in netto contrasto con l'idea dominante della scienza moderna, secondo cui l'influenza dell'organismo nel mondo termina quando esso muore. Secondo l'ipotesi della causalità formativa, si ha un incessante assorbimento nel Grande Serbatoio dell'Essere, da cui un individuo viene eternamente portato in esistenza e che si manifesta come influenze sui modelli interiori ed esteriori di esseri appena nati.

Il modo più semplice per comprendere la risonanza morfica è attraverso un'analogia a cui Sheldrake ricorre sempre, quella di un apparecchio televisivo o radiofonico. Nella TV fili, transistor e altre componenti agiscono insieme come apparecchio ricevente che capta segnali emessi dalla stazione televisiva. L'immagine finale che compare dipende dagli elementi interni dell'apparecchio, che deve essere sintonizzato correttamente sulla trasmissione. Se si cambiano le componenti, si può cambiare la sintonizzazione e interferire con l'immagine. Questo può causare distorsioni dell'immagine, ma anche la sua perdita completa.
Analogamente, in un uovo che si sviluppa, il DNA e le altre sostanze chimiche da esso contenute danno origine alle «caratteristiche di sintonizzazione» di quella particolare specie, esattamente come un apparecchio TV può captare una certa banda di segnali e non altri. L'uovo nel suo processo di sviluppo può «sintonizzarsi» con certi campi morfogeni che sono stati creati da uova sviluppatesi in modo analogo in passato. Ciò fa si che quell'uovo particolare diventi un uovo di gallina, per esempio, e non un uovo di pernice o d'aquila.
Similmente, il cervello ha le sue parti componenti: i suoi neuroni, vasi sanguigni, strutture di sostegno e così via. Esso produce immagini mentali, pensieri, emozioni, e determina molti eventi motori. Ma non crea questi eventi più di quanto l'apparecchio TV produca la propria immagine.

Quando si affronta il discorso della relazione tra la mente e il cervello, i materialisti convenzionali negano che queste analogie contengano una qualsiasi verità. Si sostiene che il cervello sia l'origine della coscienza. Non esiste nessuna fonte eterna da cui abbia origine il «segnale». Per dimostrarlo, da lungo tempo i fisiologi hanno addotto il fatto che un danno al cervello provoca la cessazione di certe funzioni: la favella, l'udito e funzioni vitali come il battito cardiaco o la respirazione. In chirurgia è anche possibile stimolare certe parti del cervello e produrre veri e propri pensieri, azioni compulsive, immagini, parole articolate o movimenti di una determinata parte del corpo: ecco altre prove, si afferma, del fatto che la nostra vita mentale e motoria risiede nel cervello; inoltre, l'eliminazione completa della funzione cerebrale cancella del tutto la mente, come avviene dopo una prolungata anossia o un grave trauma.

Ma torniamo all'analogia della TV e spingiamola oltre: immaginiamo un sempliciotto che non abbia mai visto un apparecchio televisivo. Guardando l'immagine, si chiede da dove provenga. Può pensare che abbia origine all'interno dell'apparecchio stesso: non è irragionevole supporlo. Allora guarda dentro l'apparecchio, tirando un filo qua, cambiando un collegamento là. A ogni modifica, l'immagine cambia: prima si fa confusa, poi scompare del tutto quando egli danneggia una componente fondamentale; poiché ha perso l'immagine dopo aver danneggiato l'interno dell'apparecchio, egli conclude allora che l'origine dell'immagine dev'essere per forza là dentro. La sua «prova» è analoga alla logica dei meccanicisti del cervello, fermamente convinti che il danno cerebrale dimostri come il cervello sia l'origine della mente. In entrambi i casi, tutto è nella macchina. In entrambi i casi il ragionamento trascura il fatto che possono essere in azione forze esterne: il segnale TV e, per quanto riguarda il cervello e sistemi in sviluppo come gli embrioni, sottolinea Sheldrake, coscienza e campi morfogeni.

Non tutto quanto è presente nel cervello né nel DNA. Fino a un certo punto il fisiologo del cervello ha ragione: è possibile confondere il risultato interferendo con fili, transistor, DNA, proteine, sangue, ossigeno e altre componenti, ma ciò non spiega completamente né l'apparecchio TV, né il cervello, né l'embrione in sviluppo.
«Ma allora i meccanicisti diranno», argomenta Sheldrake. «"Ammettiamo pure che oggi non possiamo spiegarlo: un giorno però potremo farlo". In questo modo emettono una cambiale non datata. E' essenzialmente un atto di fede nel metodo meccanicistico, non realmente un'ipotesi rigorosamente scientifica».

Tema ricorrente in questa cambiale è il ruolo del DNA; esso contiene il codice genetico che, in qualche modo, si suppone avere il compito di governare tutto quello che avviene in esseri viventi in via di sviluppo. Cellule d'osso, orecchio e fegato contengono il medesimo DNA e, quindi, dev'esserci qualcosa oltre e al di sopra di esso che spieghi il loro esito diverso. Si sostiene che il codice genetico sia il fattore nascosto. Ma Sheldrake crede che, nell'ipotizzare il codice genetico come una sorta di poderoso dispositivo, atto a diramare ordini e spingere in qualche modo le cellule verso un obiettivo (per esempio quello di diventare un leucocita anziché una cellula epatica), i meccanicisti facciano intervenire qualcosa di stranamente simile proprio ai campi morfogeni, anch'essi dotati di uno scopo. Questo concetto di programma genetico è, dopo tutto, teleologico , spinge verso un obiettivo specifico esattamente come fanno i proposti campi morfogeni. Ciò va molto oltre l'approccio meccanicistico, che dichiaratamente nega qualsiasi scopo od obiettivo in natura. Fin qua c'è un'inaspettata analogia fra l'ipotesi di Sheldrake e le idee sull'azione dei geni.
Ma l'analogia non si spinge molto a fondo. Sheldrake così compendia i problemi suscitati dalle attuali concezioni biologiche dominate dal DNA.

Il DNA, fornendo il codice per la sequenza degli amminoacidi, permette alla cellula di produrre determinate proteine. Questo è tutto quello che esso può fare... Il problema posto dalla morfogenesi non si ferma però alla questione di fornire le proteine giuste alle cellule giuste al momento giusto. Il problema è capire come, date queste proteine, le cellule si organizzino in forme particolari, e come si sviluppino in organismi di particolari forme. Il DNA ci aiuta a capire come otteniamo le proteine che forniscono, per così dire, i mattoni e il cemento con cui l'organismo viene costruito, ma non spiega in che modo questi elementi vengano a comporsi in particolari modelli e forme. L'idea del DNA e dà forma agli organismi e programma il loro comportamento è un'estrapolazione del tutto illegittima dall'insieme dei dati noti sull'azione del DNA... Nel quadro del modello meccanicistico, tutto quello che ha a che fare con l'ereditarietà e le proprietà di organismi viventi viene proiettato sul DNA: tutti i problemi insoluti in biologia vengono attribuiti... al DNA... Perciò, la costruzione scientifica che inizia come una rigorosa e ben definita teoria sul modo in cui il DNA codifica il RNA e quest'ultimo codifica le proteine, ben presto diventa una sorta di teoria mistica in cui il DNA ha inspiegati poteri e proprietà che non possono assolutamente essere specificati in esatti termini molecolari... Questi presunti maggiori poteri e proprietà sono, a mio modo di vedere, il risultato dell'azione dei campi morfogeni.

Attualmente si nutre la grande speranza di poter comprendere le forme in sviluppo di embrioni in base all'azione dei cosiddetti morfogeni, sostanze chimiche che, presumibilmente sotto la direzione del DNA, controllano la forma che viene assunta dagli embrioni. Il lavoro fin qua svolto sembra promettente, e si già visto che un particolare elemento chimico, l'acido retinoico, ha un certo effetto sotto questo punto di vista.
Non è però chiaro se l'identificazione di questi composti risolverà il problema della forma, perché i meccanicisti quasi certamente continueranno a metterli sotto il controllo del DNA, ritenendo eretico permettere che qualcosa sfugga all'egemonia del codice genetico. L'identificazione dei morfogeni parrebbe, quindi, limitarsi a inserire un altro anello nella catena dei meccanicisti senza risolvere i problemi indicati da Sheldrake. In ogni caso, Sheldrake si preoccupa non solo delle forme assunte da esseri viventi come gli embrioni ma anche di quelle di oggetti inanimati come i cristalli e nessun morfogeno è stato ipotizzato per poter spiegare la comparsa della forma in tale genere di oggetti.
Secondo la dottrina del materialismo estremo o radicale, la coscienza dev'essere scartata fuorché come funzione dei processi fisici che avvengono nel cervello; non si è però costretti ad assumere questa rigidissima posizione se si accetta l'ipotesi della causazione normativa. In essa è possibile seguire una concezione dettata dal senso comune, come spiega Sheldrake, che è quella di riconoscere la realtà della propria coscienza. Indubbiamente questo atteggiamento non è troppo impegnativo. Dopo tutto, è quello che ogni essere umano, perfino i materialisti più convinti, assume comunque.
Ma che dire di forme completamente nuove? Esse non possiedono alcuna forma preesistente. Sheldrake lascia aperto questo problema perché lo vede situato oltre il campo d'indagine della scienza naturale, nel regno della metafisica. Riflette però sulla facoltà del nuovo e dell'originale di manifestarsi in natura, e riconosce l'influenza sul suo pensiero del filosofo francese Henri Bergson, famoso per la sua fede nell'élan vital, una forza vitale originaria che guidava gli esseri viventi nel loro sviluppo storico.

Come osserva Sheldrake: Bergson... fu molto acuto nel sostenere la genuina creatività del processo evolutivo. Egli ribadì continuamente che le nostre menti hanno la tendenza a negare la creatività, perché non possiamo spiegarla. Essa implica il completamento nuovo, l'originale. Perciò preferiamo dire che la creatività non è creatività affatto ma semplicemente l'espressione di qualcosa di «archetipico», già esistente in forma latente. Questo nega la vera creatività. E' come dire che ogni cosa viene originata in anticipo e che l'evoluzione è come lo srotolamento di un lungo tappeto: esso semplicemente viene svolto nel tempo.

E che cosa dire delle origini prime, l'origine dell'universo?
Da dove proviene?

Sheldrake risponde: L'universo in sé [ha] un'origine e sia la creatività all'interno dell'universo sia l'universo stesso richiedono una spiegazione. Essi possono solo essere motivati in termini di qualcosa che è al di sopra e al di là dell'universo, in tal senso trascendente. Ciò corrisponderebbe alle tradizionali concezioni teistiche della creazione, che presupporrebbero un Dio che è al di là, al di sopra e nella natura... Questa è la mia stessa concezione.

Uno dei più grandi punti di corrispondenza fra l'ipotesi della causazione normativa e la mente non localizzata è il processo in due sensi che collega fra loro passato e presente. Il passato in un certo senso è il presente, perché il presente dà forma al passato alimentandosene in modo retroattivo modificando i campi morfogeni preesistenti. Ogni evento aggiunge l'effetto della propria venuta in essere al campo morfogeno con cui risuona, oppure dà inizio a un nuovo campo, in ciascun caso persistendo nel futuro.

Ora, quando cominciamo ad applicare il linguaggio psicologico e parliamo di pensieri, anziché di eventi materiali come lo sviluppo degli embrioni, è possibile immaginare lo stesso processo. C'è un processo in due sensi che collega fra loro presente e passato: pensieri passati influiscono su pensieri presenti mediante i campi morfogeni, e pensieri presenti si aggiungono ai campi o li modificano. Il presente non viene in essere soltanto per morire; viene preservato in un'invisibile registrazione morfogena che in seguito apporta un contributo a eventi futuri.
In questo modo i pensieri vengono nuovamente immessi nell'universo, in una sorta di banca cosmica della memoria, secondo l'espressione di Sheldrake. E' possibile pensare a una sorta di Mente Universale che prende forma.

Ciò richiama alla mente queste parole dell'astronomo-fisico inglese Sir James Jeans: "I concetti che oggi si dimostrano fondamentali per la nostra comprensione della natura... appaiono alla mia mente come strutture di puro pensiero... l'universo comincia ad apparire più come un grande pensiero che come una grande macchina".

Questa visione dell'universo suggerisce che esso trabocchi di pensiero, sia vivo di mente e coscienza. Questa concezione prepara la scena per la mente non localizzata: una mente non limitata dallo spazio e dal tempo, non confinata ai cervelli e ai corpi di singole persone.

Sheldrake si è affrettato a ricordare che molte tradizioni hanno contemplato la nozione di una mente cosmica, e tra queste il buddismo Mahayana con la sua idea di ala ' yavijnana, o magazzino della coscienza. Secondo i teosofi esiste un processo analogo: il registro akashico; in base a questa concezione, tutto ciò che accade, fisico o mentale, è codificato in dimensioni di spazio e tempo, dove funziona come una banca dati per il karma, un'idea presente anche nel buddismo tibetano.

L'ipotesi della causazione normativa si basa su qualcosa di più di semplici congetture? La teoria della morfogenesi ha dietro di sé una lunga storia nelle scienze biologiche. Le lunghe storie non hanno valore di prova, ma se non altro dimostrano che l'idea non è stata creata ieri e quindi può meritare uno sguardo più attento. Il fatto è che Alexander Gurwitsch e Paul Weiss svilupparono il concetto fondamentale dei campi morfogenetici negli anni Venti. Anche il famoso biologo C.H. Waddington riprese il tema, ma giudicò i campi morfogeni una semplice «comodità descrittiva», qualcosa in grado di dare un'idea approssimativa delle interazioni chimiche che avvengono negli esseri viventi.

Gran parte delle obiezioni rivolte alle ipotesi di Sheldrake si appuntano sulla loro implicazione che caratteristiche acquisite possano essere ereditate, un'idea in genere attribuita al naturalista dell'inizio del diciannovesimo secolo Jean Baptiste Lamarck.

Il lamarckismo è dogmaticamente negato dalla biologia moderna. Una pianta, per esempio, che cresce rattrappita in un ambiente sfavorevole non produrrà piante similmente rattrappite; se uno scimpanzé impara una certa capacità questa non può essere trasmessa alle generazioni successive. Il codice genetico non può essere cambiato da simili circostanze esterne, indipendentemente dal fatto che invece si modifichino caratteristiche esterne dell'organismo come forma, aspetto, facoltà o conoscenza: così dice la biologia moderna.

Forse i dati che meglio corroborano la concezione dell'esistenza dei campi morfogenetici provengono da una serie di esperimenti iniziati dallo psicologo William Mc Dougall presso l'Università di Harvard nel 1920. Egli si proponeva di scoprire se gli animali potessero ereditare abilità acquisite dai loro genitori. Mc Dougall mise dei topi bianchi, uno alla volta, in una vasca piena d'acqua. L'unico modo per fuggire era quello di nuotare fino a una delle due passerelle esistenti e arrampicarvicisi. Una passerella era illuminata vividamente e l'altra era al buio. Se i topi fuggivano utilizzando la passerella illuminata ricevevano una scossa elettrica, mentre non accadeva loro nulla di male se imboccavano la passerella al buio. Mc Dougall tenne il conto dei tentativi che furono necessari ai topi per imparare a scappare scegliendo costantemente la passerella non illuminata.
La prima generazione di topi necessitò di una media di oltre 160 scosse ciascuno prima di imparare a evitare la passerella illuminata. La seconda generazione, nata da genitori che avevano già fatto l'esperienza, si comportò molto meglio, e la sua prole ancora meglio. Mc Dougall allevò trenta generazioni di topi e, a questo punto, i topi facevano soltanto venti errori ciascuno.

Mc Dougall concluse che questi risultati sembravano dimostrare l'ereditarietà di caratteristiche acquisite, ma questa conclusione scatenò un'arroventata polemica, perché evocava lo spettro del lamarckismo. Gli esperimenti di Mc Dougall furono scrupolosamente passati al vaglio dai più eminenti biologi e nessuno di loro poté trovare il più piccolo difetto nel progetto sperimentale dello scienziato. Si decise che, in qualche modo, egli doveva avere inconsapevolmente allevato i topi più intelligenti di ciascuna generazione, benché avesse scelto i genitori a caso.
Mc Dougall raccolse la sfida. Iniziò un nuovo esperimento in cui selezionò soltanto i topi più stupidi di ogni generazione e li utilizzò come genitori per quella successiva. Ci si sarebbe dovuto aspettare, secondo i dogmi della teoria genetica ortodossa, che le generazioni successive avrebbero avuto risultati sempre più scadenti; invece migliorarono le loro prestazioni: dopo ventidue generazioni i topi imparavano dieci volte più in fretta della prima generazione di antenati stupidi.

I risultati dell'esperimento di Mc Dougall erano sorprendenti; altri ricercatori si affrettarono a replicarli: il dottor F.A.E. Crew di Edimburgo e il professor W.E. Agar e i suoi colleghi di Melbourne. Essi prepararono vasche analoghe e usarono topi bianchi dello stesso ceppo. Qualcosa d'inspiegabile successe nei loro esperimenti: fin dalla prima generazione, i loro topi impararono il compito più in fretta della prima generazione dei topi di Mc Dougall. In effetti, alcuni dei primi topi testati da Crew «impararono» a fuggire attraverso la passerella non illuminata immediatamente, senza compiere un solo errore.

Agar non solo studiò il mutamento nel tasso di apprendimento delle successive generazioni di topi discendenti da genitori addestrati ma anche quello di una linea parallela di topi discendenti da genitori non addestrati. In questa linea di controllo, alcuni dei topi furono testati nella vasca piena d'acqua e poi scartati, mentre altri che non erano stati testati funsero da genitori per la generazione successiva. Gli studi di Agar continuarono per venticinque anni. Essi confermarono i risultati ottenuti da Mc Dougall: le generazioni successive nelle linee addestrate tendevano a imparare sempre più in fretta. Ma lo stesso facevano anche i topi nella linea di controllo.
Dato che il miglioramento nei tassi di apprendimento avvenne anche in successive generazioni della linea di controllo non addestrata oltre che in quella dei topi addestrati, i risultati non potevano essere dovuti alla trasmissione di geni che potessero essersi modificati attraverso l'apprendimento: la trasmissione di caratteri acquisiti. Quindi, anche se le conclusioni di Mc Dougall vennero smentite, i risultati furono confermati.
Essi non sono mai stati spiegati e rimangono tuttora totalmente contrastanti con i concetti convenzionali della genetica, eppure si adattano straordinariamente bene al concetto di campi morfogeni.

Uno dei motivi per cui il lavoro di Mc Dougall non ottenne un maggior favore fu che sapeva di lamarckismo, lasciando intendere che caratteristiche acquisite potessero essere ereditate. Ma è possibile che le idee di Lamarck, dopo essere state relegate nell'immondezzaio della biologia, stiano facendo la loro ricomparsa, perché dati recenti suggeriscono che i mutamenti evolutivi e genetici possano essere diretti da circostanze esterne.

In uno studio, John Cairns e i suoi collaboratori di Harvard scoprirono che batteri geneticamente incapaci di metabolizzare uno zucchero, il lattosio, possono diventare consumatori di lattosio quando vengono posti in un ambiente dove il lattosio è la loro unica fonte di cibo. Per poter consumare lo zucchero evitando così di morire di fame, i batteri devono mutare a un tasso di velocità di gran lunga superiore a quanto avviene casualmente. Così i batteri acquisirono rapidamente una nuova caratteristica e la trasmisero alle future generazioni, violando gli attuali principi biologici secondo cui ciò non potrebbe verificarsi.

In un esperimento analogo, il ricercatore Barry Hall dell'Università del Connecticut sottopose dei batteri a un compito ancora più difficile: per poter metabolizzare il nuovo zucchero che era il loro unico principio nutritivo, dovettero effettuare due mutazioni, una delle quali era un'eliminazione di istruzioni genetiche esistenti. Le probabilità che due mutazioni avvengano a caso, nello stesso periodo di tempo sono poco più di una su un miliardo. Come nell'esperimento di Cairns, i batteri trasmisero poi la capacità appena acquisita a organismi successivi.

Il significato di questi esperimenti è attualmente al centro di un animato dibattito.

I risultati si limitano ai batteri? Quale percentuale di tutte le mutazioni è spiegata dai meccanismi ultimamente scoperti? La maggior parte delle mutazioni genetiche sono ancora attribuibili alla casualità, con l'«esperienza» che svolge un ruolo solo minore? Indipendentemente da come si risolverà il dibattito, questi esperimenti suggeriscono, sostiene Cairns, che tutte le variazioni non sono casuali, e che il pacchetto genetico di una cellula individuale può approfittare dell'esperienza. Cairns cosi sintetizza l'attuale situazione: L'iniziale trionfo della biologia molecolare diede un forte incoraggiamento ai riduzionisti... Curiosamente, quando consideriamo quale meccanismo potrebbe essere alla base delle forme di mutazione... troviamo che la biologia molecolare ha, nel frattempo, smentito i riduzionisti. Ora praticamente qualsiasi cosa appare possibile.

Da quando fu introdotta l'ipotesi della causazione formativa, sono stati compiuti parecchi esperimenti per dimostrare la sua validità. Essi sono estremamente semplici e diretti, e in netto contrasto con il complesso apparato di laboratorio che di solito caratterizza il moderno approccio scientifico alla ricerca biologica. Gli studi hanno esaminato le velocità di mutazione nei moscerini della frutta, nonché il riconoscimento di modelli di comportamento e i tassi di apprendimento in esseri umani durante vari compiti. Premi internazionali sono stati messi in palio per l'ideazione di esperimenti in grado di provare o confutare l'ipotesi. Finora i risultati non sono univoci. La maggior parte dei dati sono compatibili con la teoria ma alcuni non lo sono. Sheldrake, come molti altri scienziati che hanno analizzato scrupolosamente questa ipotesi, pensa che essa possa essere ancora controllata, così da poter reggere o dimostrarsi non valida sulla base di dati sperimentali.

La presenza dei campi morfici dà modo a tutti i pensieri di essere collegati fra loro attraverso lo spazio e il tempo. Ciò è un quadro della mente non localizzata e transpersonale e un modo per le menti individuali di comunicare.

Il fatto non è passato inosservato ai detrattori dell'ipotesi della causazione formativa. Alcune delle prime obiezioni, in effetti, furono che dava credito a parapsicologi e credenti nella telepatia, nell'ESP (percezione extrasensoriale) e nei fenomeni paranormali in generale. Sheldrake ammette che possa esserci un rapporto fra risonanza morfica e telepatia e che, in effetti, le differenze fra le due cose «possano essere semplicemente una faccenda di semantica.
Noi non sappiamo che cosa sia la telepatia e la risonanza morfica potrebbe essere un fenomeno molto più generale di cui la telepatia è un caso speciale, che implica connessioni fra particolari individui. Con forme di cristalli e di piante di solito non ci si riferisce alla telepatia. Quindi può darsi che stiamo parlando della stessa cosa in modi diversi».

Esperimenti con animali sembrano indicare che la telepatia o risonanza morfica (riconoscendo per ora la difficoltà di distinguere fra le due cose) avviene non solo fra esseri umani ma anche fra esseri umani e animali, o tra gli stessi animali come dimostra questo specifico esperimento del quale nessun ricercatore parla volentieri. La prima volta se ne parlò negli anni Settanta quando i parapsicologi sovietici cercarono di dimostrare sperimentalmente la trasmissione del pensiero. Essi presero una nidiata di conigli neonati e l'allontanarono dalla madre: poi uccisero i piccoli a tempi prestabiliti e registrati. La madre era collegata ad un elettroencefalografo con il quale venivano monitorati i suoi stati cerebrali. I rapporti ufficiali dichiararono che la madre presentava forti risposte elettriche nel preciso momento in cui ciascuno dei piccoli veniva ucciso. Successivamente questo esperimento è stato spesso ripetuto con gli stessi esiti in molti laboratori occidentali.
Gli aneddoti su «animali smarriti» raccontati, dove alcuni animali riescono a trovare la strada per tornare a casa o in luoghi dove non sono mai stati, attraverso enormi distanze inspiegabili sulle basi d'indicazioni sensoriali note, potrebbero spiegarsi come casi di telepatia fra essere umano e animale. Il padrone dell'animale domestico, che conosce la via per tornare a casa, potrebbe «inviare» l'informazione al suo protetto (nel linguaggio della telepatia); eppure i suoi pensieri potrebbero stabilire un campo morfogeno che rende possibile nella mente dell'animale (nel linguaggio della risonanza morfica) la conoscenza della via del ritorno. In certi casi l'informazione circa il modo di far ritorno a casa potrebbe arrivare a destinazione.

L'esperimento della Oak School dello psicologo Robert Rosenthal di Harvard, precedentemente descritto , potrebbe essere interpretato allo stesso modo. Le insegnanti si aspettavano che i loro studenti «superiori» conseguissero un profitto eccellente ed essi si mostrarono all'altezza di queste aspettative, forse perché esse influenzarono il comportamento degli studenti, spingendolo in quella particolare direzione. Può darsi che sia stato lo stesso processo a determinare i risultati dei primi esperimenti di Rosenthal con i topi, esperimenti programmati in modo analogo. Lo stesso vale per lo studio di Cordaro e Ison con i vermi, che come gli studenti e i topi si e comportarono secondo le aspettative degli sperimentatori.

Questi studi lasciano intravedere la possibilità non solo della comunicazione fra esseri umani ma anche di quella fra essere umano e animale; sembra tuttavia impossibile decidere se la miglior spiegazione sia la risonanza morfica o la telepatia. In ciascuno dei casi la mente sembra comportarsi in modo non localizzato.
Molti altri studi con animali sembrano mostrare che essi esercitano connessioni mentali non localizzate. Alcuni scienziati hanno mostrato che i delfini di una data zona possono sviluppare improvvisamente un particolare modello di comportamento dopo che delfini in una località remota l'hanno già adottato. In un esperimento, il ricercatore Wayne Doak descrive una straordinaria esperienza che ha a che fare con un sogno. Nel sogno gli fu detto, mentre lavorava con i delfini, di eseguire una certa importante attività e ripetere una parola che in lingua maori significa «il suono che il delfino fa con il suo sfiatatoio»; sempre secondo il sogno i delfini avrebbero poi adottato un modello di comportamento molto specifico. La prima volta che Doak tornò a nuotare con i delfini, fece come il sogno gli aveva suggerito: e i delfini si comportarono esattamente come predetto! Egli rimase sbalordito non solo da questo evento ma anche dal fatto che un amico che lavorava con i delfini a circa cinquemila chilometri di distanza riferì il giorno dopo la stessa esperienza con la stessa parola e lo stesso comportamento da parte dei suoi delfini.

Forse quello che è importante non è decidere se la miglior spiegazione di queste interazioni sia la telepatia o la risonanza morfica, ma riconoscerle non solo da alcuni tra i più eminenti fisici mondiali, ma da tutta la comunità scientifica come eventi legittimi che è necessario spiegare. Né la telepatia né i campi morfici sono stati spiegati, anche se oggi la scienza, in particolare la fisica subatomica, pullula di teorie di campi invisibili. Se si giunge a dimostrare che anche le nostre menti sono analoghe a dei campi, non limitabili a punti e luoghi nel tempo nello spazio, e che esse esistono oltre i cervelli e i corpi, allora l'ipotesi di Sheldrake dei campi morfogeni può rivelarsi un enorme passo in avanti nella nostra comprensione della realtà.

ATIMA


Stefano Calamita

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