Un eccellente esempio di come il mercato possa essere animato dal comportamento della folla si ebbe in America negli anni 20'.
Quelli visti fin ora sono interessanti esempi di crollo verticale delle quotazioni, ma il crollo del 1929 oscura tutti i precedenti episodi speculativi, perché non riguarda un singolo titolo, ma l'intera borsa valori più grande del mondo: Wall Street.
Dopo la fine della prima guerra mondiale gli Stati Uniti godevano di un periodo di grande benessere, uscivano vincitori e in tutto il paese si diffondeva un benessere generale, si apriva un periodo prosperoso, di grande fiducia ed entusiasmo.
Le cifre parlavano chiaro: fra il 1921 e il 1929, le industrie americane erano aumentate da 183.900 a 206.700. Erano nate le prime industrie di elettrodomestici, che con lavatrici, frigoriferi, radio ecc. avevano portato la produttività industriale nel corso del decennio al 43%, ma con i salari che erano saliti solo del 20%. Quindi la differenza fra la crescita della produttività e i salari, andava a impinguare i profitti delle aziende di ogni settore e ovviamente a far salire in una forma anomala le proprie azioni in Borsa.
La crescita convulsa, la politica del denaro facile, la febbre del profitto, contagiò un po' tutti, l'aggiotaggio dei titoli da parte degli agenti di Borsa si diffuse in poco tempo: molti operavano solo con il margin, con il quale bastava anticipare il 10% del valore totale del titolo. Ma lo squilibrio fra la produzione e il consumo, oltre l'insufficienza di mezzi di pagamento (il margin appunto) non poteva durare all'infinito. Prima o dopo qualcuno doveva pur tappare i buchi, che normalmente chiudeva da una parte aprendone altri da un'altra parte, sempre più numerosi, a catena
.
Il valore reale delle aziende non corrispondeva più al valore dei “pezzi di carta” che giravano in Borsa, fra l’altro comprati allo scoperto. La
grande azienda capitalizzata 1000 in realtà possedeva materialmente 100, magari produceva, ma aveva già da tempo i magazzini pieni di merce invenduta; ma almeno questa pur esisteva, aveva muri, macchinari, merci; mentre alcune indagando si scopriva che avevano un basso in periferia, con dentro una macchina da scrivere, un po’ di carte sul tavolo e sull’insegna c’era scritto: “XY Company - Export Import con mezzo mondo” (Galbraith, “Il grande crollo”). Questa anomala situazione era iniziata nel secondo semestre del 1924. L'indice di produzione era a 134, a fine anno era salito a 181. A fine 1927 salì a 245. Ci fu un altro incredibile balzo e a fine agosto del 1929 l'indice toccò i 449 punti. Cioè il raddoppio in poco più di due anni, mentre i consumi diminuivano per gli stipendi troppo bassi, cosicché alcune industrie avevano un surplus di produzione e i magazzini pieni di invenduto. Alcune grandi aziende nello stesso periodo di un anno, fecero dei clamorosi exploit: il titolo “Radio” (che non aveva mai pagato un dividendo) passò da 85 a 420 dollari, il 500%, i “magazzini Ward” da 117 a 440, il “New York Times” aumentò di 86 punti. Da tempo i ranghi dei milionari si infittivano di giorno in giorno, e lo stile di vita dei nuovi ricchi diventava sempre più stravagante. Per alcuni i soldi erano come quelli del monopoli, per altri giocare in Borsa era come giocare a dadi. Un giovane avvocato racconta “non avevo nemmeno un soldo, mi feci prestare qualche somma dagli amici, ed ero pronto a far l’affare utilizzando il margin, ossia quel sistema che permetteva di pagare soltanto il 10% del valore delle azioni acquistate. Dopo pochi mesi giravo con in tasca un milione di dollari in contanti, sempre pronto a fare altri affari, o a comprarmi una macchina solo perché alla sera finito il lavoro avevo perso il vaporetto per andare a casa”. (Galbraith, “Il grande crollo”).
Il Bull Market del mercato azionario americano degli anni venti, spinto dalla prosperità economica e dalle “nuove tecnologie” di quel periodo come l'automobile e la radio, registrò un'accelerazione euforica. Il mercato era considerato “Invincibile”, la propensione al rischio raggiunse livelli estremi con molti speculatori che si indebitavano oltre le loro capacità per acquistare azioni. Nel 1923 le azioni negoziate furono 237 milioni; nel 1924, 280 milioni; nel 1925, 452 milioni; nel 1926, 449 milioni; nel 1927, 577 milioni; nel 1928, 920 milioni, e quasi altrettante nei sei mesi del fatidico 1929, cioè 827 milioni. I prestiti agli agenti di cambio (bisognosi di somme per le liquidazioni quotidiane) da 3219 milioni del 1926, nei sei mesi del 1929 erano saliti a 8500 milioni (Coriere della sera, 31 ottobre 1929). In sintesi le quotazioni delle azioni erano in salita da fine 1921 con delle fasi laterali che inframmezzavano i rialzi; da quota 100, l'indice Dow Jones aumentò nel corso del 1925 fino a raggiungere i 160 punti, nel 1926 a seguito del crollo immobiliare in Florida i corsi si calmarono e lateralizzarono, per poi riprendere la corsa fino a 200 punti alla fine del 1927. Nel 1928 toccò quota 300 per arrivare nel 1929 a 370 punti ad azione, si tratta di un rialzo del 370% in 8 anni.
La crescita dei prezzi ebbe 2 alleati fedeli: l'aspettative di nuovi rialzi, si era innescata una spirale pericolosa, i prezzi salivano in attesa di ulteriori rialzi, e l'acquisto a margine che era consentito e agevolato.
Successivo: Il crollo del 1987
Sommario: Index