I giorni passano, ma i mercati americani, che sono il faro delle borse mondiali, continuano a non illuminare.
Sono ormai quasi due mesi che l'indice più importante della borsa americana, lo SP500, chiude le sue sedute all'interno dell'area compresa tra 1285 e 1313. Cinquanta giorni di oscillazione all'interno del 2% di movimento. Nulla meglio di questa osservazione spiega l'assoluta carenza di idee che si respira sulle borse mondiali, che ripetono tutte più o meno lo stesso ritornello.
Il mercato azionario è imprigionato tra il paradosso di una economia mondiale che sta crescendo ad un ritmo esagerato e senza apparente inflazione, e l'azione di disturbo di elemneti, come la crescita dei prezzi del petrolio e dell'oro, che invece si accompagnano solitamente a bassa crescita ed alta inflazione.
Sta di fatto che per ora l'area 1315 rimane un baluardo inviolato, per cui tutte le considerazioni delle scorse settimane restano valide.
Possiamo perciò dedicare qualche riga ad un fenomeno nostrano, a dire il vero non nuovo, ma che in questi ultimi giorni è tornato alla ribalta dei commenti sulle pagine economiche. Mi riferisco allo stato del sistema capitalistico italiano, su cui si sprecano i commenti dopo la chiacchierata operazione di Autostrade.
La vicenda è nota e non mi dilungo né sui particolari, né tantomeno sui vari gossip, così ben approfonditi dalla stampa.
Sinteticamente stiamo assistendo ad una operazione che è stata presentata come la possibilità di creare un campione europeo del settore autostradale, mediante la fusione dell'italiana Autostrade e della spagnola Abertis, con conseguente creazione di valore e acquisizione di vantaggi competitivi da giocare sul panorama almeno continentale.
Tuttavia nella realtà l'operazione ha tutta l'aria di una svendita. Innanzitutto non si capisce perché nella fusione sia la società spagnola, più piccola, a mangiare quella italiana, più grande. Inoltre la maggioranza del capitale sarà in mano spagnola, la sede sarà in Spagna ed avremo il paradosso che un servizio pubblico italiano sarà gestito in concessione da un'impresa straniera ed i pedaggi pagati in Italia produrranno utili e tasse in Spagna.
Che cosa ci guadagni l'Italia da tutto questo non è affatto chiaro, mentre è piuttosto chiaro che cosa ci guadagna la famiglia Benetton, che nel corso di questi anni è riuscita a moltiplicare il valore dell'investimento fatto quando ha rilevato la società dopo la privatizzazione e da questa operazione riesce a fare ulteriore cassa ed a porre le premesse per uscire, magari tra qualche anno, monetizzando ulteriormente.
Abbiamo ancora una volta toccato con mano che cosa significhino in realtà gran parte delle privatizzazioni effettuate in questi anni: nient'altro che la trasformazione di monopoli pubblici in monopoli od oligopoli molto concentrati di natura privata. Con la conseguenza tipicamente predatoria che queste forme di mercato possono assumere se le autorità che devono regolarle non fanno adeguatamente il loro mestiere. Abbiamo visto negli anni scorsi l'operazione puramente finanziaria di Colaninno e Gnutti sulla Telecom, poi sbolognata a Tronchetti Provera, ora vediamo la svendita dei Benetton agli spagnoli di Autostrade, dopo essersi arricchiti grazie ai lauti pedaggi incassati come contropartita investimenti che in larga misura non sono stati fatti, senza che nessuna autority battesse ciglio. Ci ritroviamo perciò con autostrade sempre più disastrate, pedaggi sempre più cari e gestori sempre più ricchi, grazie alle concessioni in monopolio. Ora anche con gestori spregiudicati che per arricchirsi ancor più non ci pensano due volte a cedere il controllo al miglior offerente.
Prossimamente potremo forse "apprezzare" una ulteriore dilapidazione di cassa se l'Enel deciderà finalmente di lanciare l'OPA su Suez a prezzi da amatori.
Eppure da molti decenni la teoria economica ci aveva avvisato che i monopoli privati sono largamente meno efficienti di quelli pubblici, poiché il potere di manovra del prezzo da parte del monopolista che persegua lo scopo di lucro conduce inevitabilmente al decadimento della qualità dell'offerta ed allo sfruttamento del consumatore.
Eppure la moda del gigantismo, ha condotto all'affermazione di nuovi luoghi comuni come quello che per essere più competitivi occorra essere sempre più grandi e che l'obbligo assoluto di ogni impresa sia quello di crescere a tutti i costi. Così ci troviamo di fronte alle conseguenze appena descritte o a fenomeni come quello di Microsoft, che ha fagocitato ormai quasi tutti i concorrenti con pratiche monopolistiche, non certo a vantaggio dei consumatori, che continuano a pagare a caro prezzo il suo software.
Oppure al mito delle concentrazioni bancarie, che, c'è da scommetterci, porteranno sicuramente a gonfiare gli utili dei futuri campioni del settore, ma c'è altrettanto da scommetterci, ben difficilmente faranno risparmiare agli utenti un po' di spese bancarie.
FOCUS MACROECONOMICO
La settimana del PIL americano non ha portato sorprese, confermando ancora una volta la forza della crescita economica USA. La prima stima del PIL USA del primo trimestre ha pienamente incontrato le previsioni degli analisti e con il 4,8% su base annua ha riportato in alto la crescita, archiviando come semplice incidente di percorso il dato sorprendentemente debole del trimestre precedente.
La prova di forza ha sostenuto i mercati azionari, favoriti anche da parecchie buone notizie dagli ambienti societari (anche se non sono mancate le delusioni, come la trimestrale di Microsoft), ma non è servita a rinfrancare pienamente quelli obbligazionari, che continuano a soffrire, nonostante le parole di Bernanke abbiano confermato che dopo il rialzo di maggio che porterà i tassi USA al 5% la Fed interromperà la stretta creditizia. Per quanto tempo dipenderà dai dati economici che in estate arriveranno.
Anche il dollaro è stato penalizzato da questa dichiarazione e si è indebolito fino a permettere all'euro di superare quota 1,26, superare i massimi del febbraio scorso e di puntare nuovamente a quota 1,30, se non oltre. Ad incidere negativamente sul dollaro è venuta anche la inattesa mossa della banca centrale cinese, che ha alzato i tassi di interesse per frenare l'irresistibile crescita economica (oltre il 10% nel primo trimestre) ed in questo modo potrebbe favorire la rivalutazione del yuan.
Intanto dal fronte petrolio la situazione continua ad essere delicata ed i prezzi in continua tensione a causa della prtita diplomatica tra Bush ed Iran sull'arricchimento dell'uranio.
L'oro ha proseguito la sua marcia superando anche quota 650 dollari e fornendo ambiguità all'interpretazione degli scenari economici. Infatti, sia dal fronte petrolio che da quello aurifero sembrerebbero venire indicazioni inflazionistiche, che contrastano con la tranquillità di Bernanke, che ancora una volta ha considerato poco pericoloso il fronte inflazionistico. I dati sui prezzi al consumo dei prossimi mesi risolveranno il rebus e ci diranno se aveva ragione chi ha comprato oro oppure se per questa materia prima si sta gonfiando una bolla speculativa immotivata.
La prima settimana di maggio non presenta quei dati macroeconomici che in questo periodo sono maggiormente temuti dai mercati e pertando non dovrebbe portare, almeno da questo lato, indicazioni direzionali. Segnalo soltanto per importanza il dato di martedì sull'ISM non maifatturiero americano, la produttività (giovedì) e i dati sul mercato del lavoro USA (venerdì).
Pierluigi Gerbino
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