Prosegue l’incertezza sui mercati azionari, che si sono attorcigliati in un momento di congestione che dura ormai da alcuni giorni. Il rimbalzo dai minimi, messo a segno a metà mese, non ha avuto la forza di spingersi molto avanti e si è trasformato in andamento laterale.
E’ evidente che i mercati non hanno più quella vitalità del passato, che li spingeva a recuperare potentemente al termine delle pur limitate correzioni.
Tuttavia anche la spinta al ribasso appare ancora poco convinta ed in attesa di ulteriori conferme ai primi segnali di deterioramento del quadro economico.
Quel che abbiamo visto nelle ultime 6 settimane appare al momento più una consistente presa di beneficio che una chiara inversione ribassista. Lo scrollone subito dai mercati azionari è stato determinato sostanzialmente da una esigenza di riduzione del rischio. La presa d’atto che i tassi sono in fase di crescita un po’ dappertutto (in America da un po’ di tempo, in Europa da qualche mese e in Giappone prossimamente) ha smorzato quel potente incentivo alla speculazione rappresentato dal “carry trade”, cioè il giochino che negli scorsi anni molti operatori e fondi edge hanno messo in atto.
Ci si indebitava a breve periodo in Usa o in Giappone a tassi irrisori per investire sui mercati azionari americani o emergenti, in grado di fornire rendimenti assai superiori al costo del capitale. Ciò ha creato una potente leva finanziaria che ha alimentato il rialzo dei mercati (di tutti i mercati azionari, senza esclusioni) per tre anni.
La presa d’atto che la festa è finita, e che indebitarsi costa di più (in Usa assai di più), ha convinto gli operatori a smontare qualche posizione e ridurre la leva.
Oltretutto pare che molti fondi edge utilizzino modelli di gestione del rischio piuttosto simili. Perciò si è verificato un certo sincronismo nella riduzione delle posizioni azionarie, che ha provocato cali piuttosto vistosi. Se molti si accalcano ad uscire nello stesso momento è inevitabile che i prezzi vengano schiacciati.
Si è quindi trattato più del ridimensionamento di una sovraesposizione sull’azionario che di un vero e proprio cambiamento di moda.
Per convincere molte mani forti a liquidare gran parte delle posizioni occorreranno segnali di cedimento congiunturale molto più significativi di quelli che abbiamo avuto finora e la perdita di fiducia nella capacità della Federal Reserve di regolare il ciclo economico.
E’ ipotizzabile che la fase di “distribuzione”, caratterizzata da ulteriori prese di beneficio si protragga tra alti e bassi (magari pù bassi che alti) per qualche mese, prima che arrivi il vero e proprio ridimensionamento dei valori, sempre che nel frattempo l’economia americana cada effettivamente in recessione. Il che non è affatto detto. Infatti, se i mercati obbligazionari, con l’appiattimento della curva dei tassi, sembrano propensi ad accreditare questo scenario, la Federal Reserve sembra invece assai più preoccupata delle pressioni inflazionistiche.
Il comportamento dei Bernanke e soci sta cominciando a preoccupare i mercati.
Se la Fed continuerà a snobbare i primi segnali di raffreddamento dell’economia e proseguirà nell’aumento dei tassi, cosa che a parole sembra intenzionata a fare, si fa concreta la possibilità di cadere in una eccessiva restrizione monetaria, che potrebbe effettivamente portare l’America in recessione tra qualche mese.
E’ vero che Bernanke ha le mani legate dagli enormi squilibri che ha ereditato da Greenspan, per cui se gli indici di inflazione “core” continuano a salire non si può fermare nel rialzo dei tassi, a meno di vedere dati congiunturali in sensibile peggioramento. Dati simili però al momento non si vedono ancora, anche perché la politica restrittiva, avviata un anno e mezzo fa con un certo ritardo da Greenspan, sta appena cominciando ora a mordere sul serio e richiederà ancora qualche mese per manifestare appieno i suoi effetti di freno.
Insomma, Bernanke si trova in una vera e proprio trappola statistica. Per decidere ha bisogno di dati, altrimenti rischia di non essere credibile. Ma se la congiuntura ha già svoltato, il ritardo con cui la realtà economica viene catturata dalle statistiche lo spingerà ad eccedere nella medicina restrittiva col rischio di provocare una ulteriore accelerazione verso la recessione.
I mercati stanno cominciando ad annusare questa possibilità, ma per ora la maggior parte degli operatori spera che il pilota Bernanke riesca nel miracolo di far atterrare l’economia in modo soffice, anche se nel passato la Fed non ci è quasi mai riuscita.
Se ce la farà festeggeremo tornando ai massimi del 2000, altrimenti si tornerà a soffrire.
Teniamo d’occhio l’uscita d’emergenza.
QUELLE RELAZIONI PARTICOLARI
Ci si trova spesso a discutere delle rlazioni tra economia e comportamento dei mercati.
Una caratteristica dei mercati ormai acquisita da tutti è quella che questi anticipano il ciclo economico.
Tuttavia esistono diverse modalità di comportamento tra i vari mercati.
Esiste una branca dell’analisi tecnica, chiamata analisi “intermarket” che studia proprio le relazioni cicliche e i tempi di reazione dei mercari alle previsioni di svolta del ciclo economico.
Il ciclo economico statisticamente dura qualche anno (mediamente circa 4 – 5 anni) e si sviluppa come alternanza di una fase di espansione (ripresa) che culmina con crescenti pressioni inflazionistiche ed una fase di contrazione (recessione).
I vari mercati hanno comportamenti differenti in relazione all’andamento del ciclo, in quanto tendono, in misura diversa tra loro, ad anticipare il ciclo economico. La figura sottostante rappresenta schematicamente le rlazioni tra ciclo dell’economia reale e andamento dei principali mercati.
Il Mercato delle Materie Prime è quello maggiormente in fase con il ciclo. La salita dei prezzi accompagna l’espansione, la discesa accompagna la recessione.
Il Mercato Azionario tende ad anticipare di qualche mese l’andamento del ciclo.
Il Mercato Obbligazionario anticipa ancora di più l’andamento del ciclo.
FOCUS MACROECONOMICO
La settimana passata ha trasmesso ai mercati poche indicazioni economiche, ma quelle poche sono statre univocamente nella direzione di un rallentamento della congiuntura americana nel secondo trimestre. Ordini di beni durevoli e superindice sono risultatiinfatti entrambi peggiori delle attese, anche se non in modo drastico.
Sembra perciò sempre più probabile che il ciclo economico abbia raggiunto il suo top di crescita nel primo trimestre di quest’anno. Il dato ufficiale che verrà presentato giovedì dovrebbe confermare una crescita addirittura superiore all’ultima anticipazione che indicava un tasso annualizzato del 5,3%. Però nel secondo trimestre che sta volgendo al termine le indicazioni che segnalano un rallentamento significativo sembrano decisamente prevalenti.
Il problema che devono cercare di risolvere i mercati, che, come sempre, fanno il mestiere complicato di interpretare il presente ed anticipare il futuro, riguarda il tipo di atterraggio che gli USA compieranno. Sarà soft oppure hard? Le prime comunicazioni societarie sulle trimestrali (ma sono ancora troppo poche per avere indicazioni) sembrerebbero descrivere un panorama di rallentamento graduale e senza asperità, con utili ancora sostenuti, sebbene in attenuazione. Se effettivamente così fosse e le materie prime iniziassero anch’esse una parabola discendente in linea col rallentamento del ciclo su scala mondiale, avremmo scenari favorevoli al mercato azionario e la correzione in atto non porterebbe ulteriori sofferenze ai portafogli degli investitori.
Tuttavia va detto che esiste anche la possibilità di uno scenario peggiore, che le borse per ora non stanno scontando poichè verrà eventualmente annunciato non prima delle indicazioni estive sul terzo trimestre. Esso riguarda un rallentamento più marcato dei quanto la stessa Federal Reserve desideri e tale da far precipitare l’economia Usa se non in recessione, almeno in una fase di stagnazione.
Se questo scenario dovesse realizzarsi vedremmo certamente i bonds riprendersi dai cali subiti negli ultimi mesi, ma le azioni subirebbero un notevole ridimensionamento, poiché un calo significativo del PIL non potrebbe non riflettersi in una dinamica discendente degli utili societari.
Intanto l’ultima settimana di giugno, oltre che presentare il già citato dato definitivo sul PIL USA del 1° trimestre, si presenta abbondante di dati, soprattutto riguardanti la misurazione della fiducia economica. Abbiamo infatti molteplici indici di fiducia in USA ed in Europa, riguardanti sia le imprese (IFO tedesco e PMI di Chicago) che i consumatori (indice conf. Board e Michigan per gli USA e Eurozona in europa). Infine nella serata di giovedì la Fed dovrebbe comunicare il diciassettesimo rialzo consecutivo dei tassi, sempre di un quarto di punto, come i precedenti.
Pierluigi Gerbino
Successivo: 06/07/2006 Estate indecifrabile
Sommario: Indice