Mentre si susseguono sempre più uniformemente segnali di frenata nell’economia americana e di conseguenza anche di quella mondiale, le borse in questi giorni hanno festeggiato, mettendo a segno nuovi massimi annuali.
A prima vista non si capisce che cosa ci sia da festeggiare, dato che anche gli indicatori di sentiment dei direttori agli acquisti, che di solito sono bene informati sul clima che si respira in azienda, stanno declinando da qualche mese e sono ormai vicini alla soglia di 50, che viene indicata come quella che separa l’ottimismo dal pessimismo, la previsione di crescita da quella di recessione.
Eppure proprio ieri dai mercati americani è venuta un’ulteriore accelerazione rialzista che ha contagiato il resto del mondo e sta portando i principali mercati azionari ai livelli di maggio se non oltre.
In questi giorni dobbiamo addirittura registrare il superamento del massimo assoluto da parte del notissimo indice Dow Jones.
La notizia ha avuto un discreto impatto mediatico, con i giornali a celebrare la fine della sofferenza per i risparmiatori ed il ritorno del sereno nel cielo delle Borse.
In realtà la significatività dell’indice Dow Jones è piuttosto scarsa, non solo per il fatto che, chissà come mai, è l’unico indice USA globale a segnare il massimo storico, come fu l’unico ad archiviare la crisi degli anni 2000-2002 con una perdita tutto sommato abbastanza contenuta. Sembra quasi che sia costruito per riflettere solo il lato migliore della medaglia del mercato. La scarsa affidabilità di questo indice deriva anche da altri fattori tecnici, dato che comprende solo 30 titoli, viene rivisto nella sua composizione assai raramente e secondo criteri non molto moderni e soprattutto è costruito in modo da non differenziare i pesi delle società che lo compongono. Vale a dire: il suo valore è la pura e semplice somma della quotazione in dollari di ciascun titolo del paniere. Pertanto succede che General Electric, che capitalizza quasi 400 miliardi di dollari e quota 36 dollari, incide sull’indice meno della metà di 3M, che capitalizza meno di 60 miliardi ma quota circa 75 dollari.
Molto più significativo è l’indice SP500, che comprende non 30 ma 500 società ed attribuisce a ciascuna un peso che dipende dalla capitaliazzazione.
Comunque anche SP500 ha fornito un segnale di forza portandosi nei pressi di 1.350 punti. Mancano ancora circa 200 punti al massimo assoluto di 1.552 del 24 marzo 2000, ma la conferma al di sopra dei livelli del maggio scorso autorizza a pensare che la corsa non sia ancora finita.
La linfa che sostiene questa ennesima gamba rialzista proviene dalla fiducia che questa volta la Federal Reserve abbia fatto le cose bene e che ci siano buone probabilità di un atterraggio morbido senza recessione. A rassicurare i mercati ha anche provveduto il prezzo del petrolio, che è sceso ieri fin sotto quota 58 dollari, allontanando lo spettro dell’inflazione.
Le parole di Bernanke, pronunciate ieri pomeriggio, sono perciò suonate come musica alle orecchie del mercato. Il chairman della Federal Reserve ha rassicurato, come fa solitamente, sul rallentamento dell’economia USA e si è detto convinto che il rallentamento del settore edilizio avrà un impatto limitato sull’economia americana e potrà venir compensato dalla vitalità di altri settori.
Pertanto il pilota è tanquillo e non vede significative turbolenze. Perché preoccuparsi?
D’altra parte il trend rialzista è ripristinato anche agli occhi di chi si basa esclusivamente sui grafici.
E. come dicono gli americani….. trend is your friend. Buon viaggio.
CONTI PUBBLICI: MA SIAMO MATTI?
Ho ricevuto in questi giorni dal sig. Walter la seguente email, che sollecita la discussione sul tema del momento:
In questi giorni che non si parla altro che di finanziaria mi assilla in mente una domanda che non mi dà pace e che vorrei discuterne con Lei per ,eventualmente trovare delle risposte. La domanda é: è mai possibile che dopo varie finanziarie in cui da un lato si sono introdotte nuove tasse,cioè nuove entrate,dall'altra si sono tagliate delle spese,si debba fare una finanziaria da 31 miliardi di euro per poter appena rientrare nei parametri di Maastricht. Dove vanno a finire tutti questi soldi e i soldi delle tasse introdotte precedentemente e dei tagli fatti in precedenza. Perchè quelli non spariscono ma rimangono. E' come se si facesse una finanziaria solo per appianare la crescita del deficit da un anno altro. Ma siamo matti?
Rispondo con una piccola introduzione sull’ingresso dell’Italia nell’Unione Monetaria Europea che ci ha permesso di entrare nel club dell’Euro.
Sono fatti di 10 anni fa, per cui molti lettori li ricorderanno, ma può darsi che per qualcuno, magari i più giovani, sia necessario riportarli alla memoria.
Quando Ciampi, l’allora ministro del Tesoro del Governo Prodi, riuscì a strappare l’ammissione del nostro paese nell’euro fin dalla nascita, dopo un duro negoziato con la Commissione Europea e gli altri paesi, preoccupati delle mani bucate dei nostri governi, dovette firmare con l’unione Europea un Patto di Stabilità, cioè un impegno che avrebbe vincolato il nostro paese a tenere certi comportamenti per i successivi 20 anni, cioè fino al 2017.
Ricordo che il nostro paese venne accolto nell’euro nonostante la palese violazione di uno dei parametri di ammissione, cioè il rapporto Debito/PIL, che doveva essere non superiore al 60%. Come si vede dalla tabella, che evidenzia la dinamica dei conti pubblici italiani negli ultimi 20 anni, il nostro paese si presentò all’esame del 1997 con un Debito in rapporto al PIL di circa il doppio del valore massimo concesso.
Ho riportato anche i valori del decennio precedente per far notare che il macigno del debito pubblico non è una caratteristica connaturata nel sistema Italia, ma il frutto di precise politiche che i vari governi degli anni 80 e 90 perseguirono. Nel 1984 il rapporto Debito/PIL non era lontano dal 60%. Lo diventò con la finanza allegra dei vari governi Craxi, Andreotti, Forlani degli anni seguenti. Erano gli anni in cui il deficit pubblico (indebitamento netto in tabella) viaggiava a ritmi superiori all’11% ed anche il saldo primario, cioè il saldo al netto degli interessi sul debito, era negativo.
Qui sì che siamo stati matti.
A partire dal ’95, quando si decise di “gettare il cuore oltre l’ostacolo” e tentare il raggiungimento dell’impossibile obiettivo di entrare nel progetto Euro, la situazione cominciò ad evolvere verso il risanamento.
Il deficit cominciò a scendere e soprattutto, grazie ai colossali sacrifici richiesti agli italiani per raggiungere l’Euro, si venne a creare un circolo virtuoso con al centro un saldo primario che divenne significativamente positivo. L’aver raggiunto livelli di avanzo primario superiori al 5% alla fine degli anni ’90, in coincidenza con l’ammissione alla moneta unica, evidenziò il raggiungimento di un sostanziale riequilibrio finanziario, fatto salvo il peso del macigno rappresentato dagli interessi sull’enorme debito. Si noti che in quegli anni anche il rapporto Debito/PIL cominciò a scendere.
Ovviamente l’Unione Europea non ci promosse gratis. Proprio in virtù del nostro forte debito l’Italia dovette ufficialmente impegnarsi per i 20 anni seguenti a portare il valore del rapporto debito/PIL a convergere entro il 2017 verso il livello virtuoso del 60% ed a procedere senza esitazioni in tal senso. Cioè occorreva che il rapporto scendesse ogni anno.
Si noti che fino al 2004, sebbene con una progressiva decelerazione della velocità di discesa, il rapporto calò, fino a raggiungere nel 2004 il minimo di 103,9, ancora molto lontano dall’obiettivo, ma sulla strada per avvicinarlo.
Nel 2005, alla fine dell’era Berlusconi, si è però verificata l’inversione di tendenza, ben anticipata dalla progressiva erosione dell’avanzo primario e dalla crescita del deficit al di sopra del 3%, che è l’altro paletto che non dovrebbe mai essere superato.
Abbiamo percorso quindi una strada che dalla pazzia degli anni ‘80 ci ha portati a rinsavire nella seconda metà del decennio successivo, ma soltanto per qualche anno. Ultimamente si sta rischiando di tornare nel manicomio del dissesto finanziario.
Il nuovo governo ha ereditato una situazione catastrofica e si è trovato a dover decidere se attuare una terapia d’urto per rimettere in sesto la direzione dei nostri conti pubblici ed evitare la sicura perdita di credibilità e magari, come ipotizzano alcuni economisti, l’uscita dell’Italia dalla moneta unica.
Si può discutere quanto sia stata conveniente per il nostro paese l’adesione all’Euro. Molto meno discutibile è l’effetto assolutamente devastante che avrebbe un’uscita dalla moneta unica, che precipiterebbe il nostro paese in una situazione paragonabile all’Argentina di qualche anno fa.
Pertanto la via è purtroppo obbligata e la terapia non può che essere di quelle che lasciano il segno.
Chi ha creduto al sogno delle minori tasse, maggiori pensioni e ricchezza per tutti ha avuto un brusco risveglio.
Quel che però deve essere chiaro è che non è colpa né dell’euro, né di Bruxelles, se ora si deve riprendere a fare sacrifici. E’ solo colpa di chi ha creato il disavanzo.
FINANZIARIA: CHI TROPPO VUOLE…
Ci avevano anticipato che sarebbe stata una finanziaria di lacrime e sangue, ma benchè preparati, gli italiani sembrano rimasti choccati dalla sfilza di provvedimenti presentati dal governo Prodi. Si tratta della manovra più consistente degli ultimi anni, necessaria, secondo il governo per risanare il paese e dare una spinta verso lo sviluppo. Già questi due obiettivi sarebbero sufficienti a far tremare i polsi a qualunque governo. Ma il nostro non si è limitato. Ci ha messo anche l’ulteriore obiettivo di raggiungere una maggior equità.
Come capita a tutti quelli che voglio troppo, il rischio è però quello di arrivare a stringere ben poco.
Vediamone sommariamente i singoli aspetti.
In tema di risanamento a prima vista sembra che il governo abbia dato il meglio di sé. E’ certamente un punto di merito, a mio parere, l’aver tenuto ferma l’entità della correzione dei conti pubblici a circa 15 miliardi, per portare al 2,8% il rapporto deficit/PIL a fine 2007, senza cedere alla tentazione di allentare la guardia sperando che le impreviste maggiori entrate fiscali di questo 2006 si perpetuino all’infinito. Positivo è anche l’aver resistito alla tentazione di introdurre una tantum o misure di finanza creativa (magari solo per il fatto che la fantasia di Visco non è paragonabile a quella di Tremonti). Però restano parecchie perplessità sulla realizzabilità concreta di alcune misure, come i tagli ai trasferimenti ai comuni e la lotta all’evasione fiscale.
Maggiori perplessità vengono dall’esame dei provvedimenti per lo sviluppo. Il tanto decantato cuneo fiscale si è ridotto a 5 miliardi di sgravi Irap e contributivi, in buona parte compensati dal vero e proprio esproprio ai danni delle imprese di parte dei fondi del TFR che i lavoratori non abbiano destinato alla previdenza integrativa. Con una mano si dà poco e con l’altra si toglie qualcosa. Quel che resta non si capisce coma possa effettivamente imprimere una svolta al sistema economico. Forse il governo si illude che l’economia italiana la svolta se la dia da sola, visto quel po’ di ripresa che si sta manifestando, non certo per merito del governo.
Ma è sul lato dell’equità che si rischia il fiasco completo. Tutto il polverone di rimodulazioni di aliquote, detrazioni, assegni familiari, che farà andare in bestia i commercialisti, rischia di partorire il topolino di minori imposte per poche centinaia di euro sui redditi più bassi. In compenso verranno penalizzati i contribuenti al di sopra dei 40.000 euro circa, che non si possono certo definire ricchi. Come ulteriore beffa coloro che ricchi lo sono veramente avranno aggravi di imposte abbastanza trascurabili.
Senza contare poi il fatto che i tagli ai trasferimenti agli enti locali si tradurrà, come avvenuto in passato, in maggiori imposte locali, che porteranno ad annullare anche i pochi risparmi sulla carta concessi ai contribuenti meno abbienti.
Il grosso limite di questa manovra, in tema di equità, è a mio parere il non aver compreso che in un paese ad alta evasione fiscale e ad alta precarietà, intervenire sulle aliquote non serve a conbattere veramente la povertà. I veri poveri, quelli che non hanno redditi o li hanno molto bassi, per cui non pagano imposte, hanno avuto dal taglio delle aliquote un guadagno nullo. Invece rischiano di avvantaggiarsi della manovra coloro che evadono di più e riescono a far figurare redditi ben al di sotto dei 40.000 euro lordi l’anno.
L’unica misura oggi in grado di portare maggiore equità sarebbe una efficace azione di contrasto all’evasione fiscale.
Qui però, al di là delle parole, non si è fatto molto. Anzi si è utilizzato il vecchio metodo dell’aumento della burocrazia e dell’inasprimento poliziesco delle sanzioni, che finirà per esasperare i contribuenti onesti.
Non si è avuto il coraggio di introdurre qualcosa per creare un conflitto di interessi tra chi non vuole emettere la fattura e chi la dovrebbe richiedere, ma non lo fa se non ne ha un interesse diretto. Conflitto che si stabilirebbe se si ammettese una qualche modalità di detrazione di tutte le spese documentate da parte dei contribuenti.
Per fare questo occore un po’ di coraggio e capacità. Doti che non abbondano in questo governo.
Un’ultima considerazione sulla qualità complessiva della manovra.
Sono stati introdotti una settantina di nuovi provvedimenti, spesso assai complessi, tra nuove imposte e modifiche a leggi esistenti.
Tutte le belle parole sulla necessità di semplificazione e deregolamentazione per restituire competitività al sistema sono andate a farsi friggere.
Se questa è una svolta, rischia di esserlo nella direzione sbagliata.
FOCUS MACROECONOMICO
Con Settembre termina il terzo trimestre, ma ovviamente avremo i consuntivi sull’andamento dell’economia soltanto tra qualche settimana.
I mercati devono erciò tentare di effettuare congetture e previsioni basandosi soltanto indicatori anticipatori e sui risultati parziali mensili delle varie componenti del PIL.
Intanto è uscita la misura definitiva del PIL USA del secondo trimestre e, con il dato annualizzato pari al 2,6%, è stata leggermente al di sotto della precedente stima e delle attese. Questo ed il dato sugli ordini di beni durevoli, sono stati gli unici dati negativi
Gli altri dati pubblicati hanno sorpreso positivamente.
La fiducia dei consumatoiri è in ripresa, mentre la vendita di case in agosto è stata in calo, ma assai inferiore al temuto. Molti pertanto sembrano disposti a dare credito all’ipotesi del rallentamento senza recessione, basando tale ipotesi sulla tenuta del mercato immobiliare e dei consumi, che dovrebbe impedire tonfi al PIL.
Oltretutto il petrolio sembra avere difficoltà a ritornare significativamente al di sopra diei 60 dollari, per cui molti si sbilanciano ad ipotizzare scenari di moderazione anche sul fronte dell’inflazione.
I prossimi giorni presentano le rilevazioni americane sull’indice ISM non manifatturiero (mercoledì) e del mercato del lavoro (venerdì), mentre dall’area euro l’appuntamento più importante è la riunione della BCE di giovedì, che dovrebbe alzare di un quarto di punto i tassi di interesse ufficali.
Pierluigi Gerbino
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