Stiamo vedendo in questi giorni, sui mercati azionari, un assaggio di quanto sia schizofrenico il comportamento delle borse.
Negli ultimi giorni sono venuti segnali di tendenza dell’economia americana piuttosto preoccupanti. Alcuni indicatori anticipatori si sono avviati verso il territorio che segnala l’imminenza di un forte rallentamento o addirittura di una recessione. Il clima comincia a farsi molto più pesante di quanto si potesse percepire qualche mese fa.
L’ipotesi di “soft landing”, cioè di moderato rallentamento della crescita ad un ritmo maggiormente sostenibile, propagandata dalla Federal Reserve, comincia fa storcere il naso ad un numero sempre maggiore di esperti, più propensi a considerare la possibilità, se non la probabilità, che l’atterraggio sia molto più “hard” ed arrivi addirittura a portare alla crescita zero per qualche trimestre nel 2007.
I mercati obbligazionari confermano le attese recessive continuando il trend rialzista iniziato a maggio, che ha portato i tassi a lunga, sia in Europa che in America, nei pressi del 4%, perpetuando l’anomalia della curva dei tassi. In Europa abbiamo ormai un appiattimento quasi orizzontale, con i tassi a 10 anni allo stesso livello di quelli a 2 anni, mentre in USA abbiamo addirittura una decisa inversione, con i tassi a 2 anni decisamente più alti dei decennali. Si sa, e l’abbiamo scritto da tempo, che situazioni simili rivelano una previsione di recessione da parte del popolo dei bonds.
Invece i mercati azionari, dopo un lieve sbandamento nella parte finale della scorsa settimana, quando sono usciti i peggiori dati economici, hanno mostrato di continuare a non credere all’ipotesi recessiva, proseguendo il viaggio verso i massimi dell’anno. L’indice guida americano, SP500, in questi giorni ha trascinato al rialzo tutti gli altri mercati andando a violare i massimi del maggio scorso e dirigendosi verso 1.340 punti.
L’azionario punta sul “soft landing”, mostra i muscoli e ripristina il trend rialzista che ormai sta per compiere il quarto anno di vita.
Hanno contribuito a questa iniezione di fiducia gli indici che misurano l’inflazione, che hanno mostrato una certa propensione a tranquillizzarsi, anche per merito del prezzo del petrolio, che ha subito una notevole caduta delle quotazioni, in alcuni momenti anche al di sotto di quota 60 dollari.
Il ragionamento di chi in USA non vuole cedere al pessimismo è il seguente: se cala il petrolio rallenteranno le pressioni inflazionistiche senza bisogno di ulteriori rialzi nei tassi. Le imprese potranno ricostituire i propri margini, la Fed potrà, magari non subito, riabbassare un po’ i tassi e la crescita continuerà al suo ritmo potenziale intorno al 3% annuo. Perciò che motivo c’è di vendere le azioni?
Occorre però verificare la logica che sta dietro tale ragionamento.
I lettori ricorderanno che più volte abbiamo sottolineato come in questi anni di forti aumenti del prezzo del petrolio abbiamo constatato, con una certa sorpresa, che gli effetti inflazionistici sono stati molto contenuti. Abbiamo anche spiegato le possibili ragioni, che ora non stiamo a ripetere.
Quel che non riesco a capire è il motivo per cui il rincaro del petrolio non porta pressioni inflazionistiche, mentre il calo del petrolio debba portare disinflazione.
Inoltre approfondiamo un attimo le motivazioni alla base del ridimensionamento dei prezzi del petrolio. Non è certo dovuto a nuove scoperte o aumenti di produzione, e neppure ad un rasserenamento del clima geopolitico mondiale. L’aumento della domanda continua ad essere superiore all’incremento dell’offerta.
Quel che si nota è la riduzione delle attese speculative rialziste nelle ultime settimane. Si parla di un fondo hedge americano piuttosto grosso che si sia fatto beccare dalla correzione dei prezzi con una certa sovraesposizione rialzista e che sia stato costretto a liquidare ingenti posizioni per non fallire. Inoltre pare che proprio le attese di recessione o forte rallentamento dell’economia mondiale, che dovrebbero almeno in parte frenare la produzione industriale anche nei paesi più grintosi (Cina ed India in primis), abbiano portato parecchi operatori posizionati al rialzo a prendere beneficio, attendendosi un calo nella domanda futura di greggio.
Si tratta evidentemente di una motivazione che non dovrebbe rallegrare gli investitori azionari, poiché da che mondo è mondo ad una recessione si accompagna il calo dei corsi azionari, e non l’aumento.
Invece le borse salgono, smentendo i mercati obbligazionari e, a mio parere, anche la logica. Si tratta di un comportamento principalmente emotivo che può provocare una estensione del trend fino a realizzare i tipici eccessi che causeranno poi una marcata flessione, quando (e se) la recessione si manifesterà.
La realizzazione di una ulteriore gamba rialzista potrebbe essere addirittura favorita dalla presenza sul mercato di molti operatori dotati di buon senso che hanno liquidato parte delle posizioni in estate proprio in previsione di un rallentamento dell’economia accompagnato dall’inversione ribassista delle borse.
Costoro adesso si ritrovano spiazzati dal raggiungimento di nuovi massimi e debbono scegliere se stare a guardare oppure rincorrere i prezzi per non perdere il treno del rialzo. Non dimentichiamo che i gestori dei fondi sono legati al benchmark e non possono permettersi di farsi staccare troppo dagli indici di riferimento, pena la perdita di credibilità.
Perciò se il mercato saprà stare al di sopra dei livelli di maggio per un po’, è prevedibile un nuovo impulso significativo, dovuto proprio alla corsa agli acquisti di chi non vuole essere tagliato fuori.
E’ evidente che il cerino acceso finirà in mano a qualcuno, ma nessuno se ne preoccuperà, dato che, ovviamente, tutti penseranno di essere in grado di rifilarlo a qualcun altro.
SP500: VADO AL MASSIMO
Il principale e più rappresentativo indice americano, SP500, ha realizzato proprio in questi giorni l’impresa di annullare completamente il calo estivo.
Ricordo che la robusta correzione partita a maggio si è eaurita con la realizzazione di un doppio minimo il 18 luglio, da cui è partito il rimbalzo. Il modello di inversione è stato completato il giorno di ferragosto con una chiusura superiore a 1280. L’obiettivo grafico del rialzo si poneva a quota 1338, che è stata raggiunta proprio in questi giorni. Ciò ha comportato anche la violazione del precedente massimo annuale (1326 dell’8 maggio scorso) ed il conseguente ripristino del trend rialzista di lungo periodo partito nell’ottobre 2002.
Come si vede dal grafico, il movimento in atto è abbastanza inclinato, all’interno di un canale rialzista di breve termine (rosso) e sembra in grado di puntare al bordo superiore del canale di lungo periodo (blu), in area 1380 circa. Affinchè ciò avvenga è importante il mantenimento dell’indice al di sopra di 1326 o almeno di 1310.
Se invece la correzione si protraesse oltre 1290 avremmo un cambiamento di impostazione di breve periodo con possibile calo fino a testare nuovamente il bordo inferiore del canale blu (area 1260).
Al momento comunque l’ipotesi più probabile è quella della prosecuzione rialzista.
PETROLIO: VADO AL MINIMO (E RIMBALZO)
Il future sul petrolio ci ha fatto vedere una decisa e rapida correzione dai massimi assoluti in poche settimane.
Dopo aver appunto realizzato il massimo assoluto al 17 luglio scorso a 79,43 dollari, sull’onda dell’inizio della guerra del Libano, la speculazione ha deciso che per il momento occorreva accontentarsi e sono partitre le prese di beneficio, che hanno colto un po’ di sorpresa il mercato. Infatti il prezzo ha continuato a scendere per oltre un mese, violando senza la minima reazione anche il supporto di area 69 $, che a maggio e giugno aveva contenuto il tentativo primaverile di correzione.
Oltre tale livello la strada è stata assolutamente sgombra di ostacoli fino a quota 60, raggiunta e frazionalmente superata proprio in questi ultimi giorni. Qui però passa la trend line rialzista di lungo periodo che, francamente, risulta un ostacolo duro da superare. Oltretutto in area 59 c’è un supporto statico importante (il doppio minimo primaverile). Infine il prezzo aveva accumulato un forte eccesso ribassista di breve periodo (ipervenduto) sui principali oscillatori.
Perciò il rimbalzo che si è verificato ieri appare un atto dovuto. Esso dovrebbe protrarsi fino a quota 68-69 $, effettuando il classico pullback sull’area che faceva da supporto ed ora costituisce resistenza.
Lì vedremo se la correzione si trasformerà in trend ribassista di medio periodo oppure sarà stato un semplice episodio emotivo.
FOCUS MACROECONOMICO
La scorsa settimana la Federal Reserve ha lasciato ancora una volta immutati i tassi, come previsto dalla generalità degli esperti. A provocare una svolta di notevole importanza nell’interpretazione dei possibili scenari futuri ci hanno però pensato alcuni indicatori economici anticipatori.
Se finora avevamo constatato segnali di rallentamento nella crescita americana, alternati tuttavia ad indicazioni di robustezza di fondo, per la prima volta sono venuti chiari, inequivocabili e convergenti segnali di rallentamento, che rendono addirittura plausibile l’ipotesi recessiva per l’economia USA.
Non si tratta ancora di indicazioni provenienti dall’economia reale, ma da indici anticipatori, che solitamente vengono usati per ipotizzare quel che il PIL registrerà qualche mese dopo.
Ebbene, per la prima volta da tre anni l’indice elaborato dalla filiale di Philadelphia della Federal Reserve, che misura l’attività economica in tre piccoli stati della costa atlantica, è sceso sotto il livello zero, superando il limite che separa la crescita dalla recessione. Contemporaneamente anche l’indice tedesco ZEW, che misura il sentiment economico degli imprenditori, è stato rilevato in terreno negativo e molto al di sotto delle previsioni.
Aggiungiamo a questi dati anche l’ennesima flessione del superindice anticipatore, in calo ormai da mesi e la diminuzione del 6% mese su mese nelle vendite di nuove case in Stati Uniti, che conferma le difficoltà del settore immobiliare. Il quadro che si delinea sembra quindi dar qualche ragione ai più pessimisti, che ipotizzano per i prossimi trimestri un rallentamento più marcato di quanto la stessa Federal Reserve finora si sia spinta a considerare.
L’unico dato non negativo è stato il rallentamento nella crescita dei prezzi alla produzione, provocato dal calo dei prezzi delle materie prime e soprattutto del petrolio, arrivato ormai al di sotto dei 60 dollari.
I prossimi giorni giungeranno parecchi dati macro, ma nessuno particolarmente decisivo. Dovrebbero essere confermati i segni di rallentamento già manifestati.
Pierluigi Gerbino
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