I mercati azionari di tutto il mondo, con quelli americani in testa, si avviano a concludere un mese di ottobre a tutto gas, ed inanellano il quarto mese consecutivo di rialzo dopo la correzione di maggio e giugno. Quasi dappertutto sono stati ritoccati i massimi di quest’anno, mentre l’indice Dow Jones ha addirittura sfondato i suoi massimi storici e si è assestato ben oltre quota 12.000 punti.
Se guardiamo l’inclinazione della linea di tendenza di breve periodo dell’indice SP500, il più rappresentativo tra quelli americani, constatiamo che questa fase rialzista ha superato per impulsività ogni precedente movimento degli ultimi anni e rivela caratteri di evidente euforia.
I mercati sono riusciti anche a smentire una delle ricorrenze statistiche più solide tra le tante che sono state classificate: la negatività dei mesi di settembre ed ottobre. Quest’anno settembre ed ottobre hanno ospitato la prosecuzione del movimento rialzista dei mesi precedenti senza stornare alcunchè di significativo.
Tutto ciò è avvenuto a dispetto dell’economia reale, da cui non vengano segnali di accelerazione nella crescita, ma di rallentamento.
Non possiamo certo paragonare l’ottimismo pregiudiziale di questi tempi con il cieco trionfalismo degli anni 1999-2000, quando si ipotizzò la fine dei cicli economici e l’avvento dell’”età dell’oro” per il capitalismo mondiale, grazie alle prodigiose potenzialità di internet e della new economy. Quelle furono distorsioni percettive tipiche della fine di un ciclo di lunghissimo periodo.
Tuttavia anche oggi qualcosa del genere, in piccolo, lo si sta vedendo.
Dal punto di vista teorico c’è chi giustifica la possibilità di protrarre la salita dei mercati con la teoria dell’atterraggio morbido, secondo cui grazie al sapiente lavoro della Federal Reserve non dovremmo più conoscere fasi di recessione, ma tutt’al più brevi momenti di rallentamento economico.
Inoltre si ipotizza l’inossidabilità delle maggiori imprese quotate, che dovrebbero impertrerrite continuare a macinare tassi di crescita degli utili a due cifre in qualsiasi condizione ambientale grazie ai prodigi della globalizzazione. Infatti, se anche l’economia americana rallenterà, il flusso di profitti, che ormai viene soprattutto dagli stabilimenti localizzati nei paesi in via di sviluppo, dovrebbe continuare senza soste ad alimentare gli azionisti di queste multinazionali. Ovviamente chi propaganda queste ipotesi non viene sfiorato nemmeno per un momento dal dubbio che un eventuale forte rallentamento americano possa provocare qualche momentanea, ma magari piuttosto significativa, crisi di crescita nelle economie emergenti. Se la maggioranza degli operatori l’ha dimenticato, qualcuno ricorderà che cosa successe nel 1997 alle “Tigri” asiatiche, che entrarono in crisi quando scoppiò la bolla immobiliare (guarda un po’…) e per anni dovettero annaspare nella recessione.
Nel comportamento degli operatori, poi, si vedono da qualche tempo tracce di quella ubriacatura che normalmente viene a preannunciare la fine di una fase rilazista di medio-lungo periodo.
I borsini delle banche non sono più di moda, oggi ci sono i forum dei siti che si occupano di argomenti finanziari. Da qualche tempo questi forum sono frequentati sempre più da traders dell’ultima ora, attirati dai “facili” guadagni della borsa e senza una minima esperienza in materia.
Nel mio piccolo constato un discreto aumento di presenze ai miei corsi “base”, quelli dedicati ai neofiti e mi capita ultimamente di ricevere con una certa frequenza email di visitatori del sito che mi rivolgono domande disarmanti e rivelatrici di assoluta ignoranza in materia di investimenti: ad esempio chiedono se per operare in borsa è necessario avere un conto corrente oppure se le azioni si comprano in qualche altro modo, oppure chiedono se l’investimento in borsa è un guadagno sicuro oppure si rischia qualcosa, o infine chiedono qual è il quadagno giornaliero che avrebbero se cominciassero a praticare il trading on line.
Sono sintomi di un progressivo miglioramento della fiducia nel mercato e della sempre più salda convinzione che anche questa volta la forza di attrazione del cielo è più potente di quella della terra, specialmente dopo che i giornali ci hanno avvisato che l’indice Dow Jones (è un indice fasullo, ma non interessa a chi vuole seminare ottimismo) ha superato i massimi del 2000 e i 12.000 punti. Manca ancora all’appello il rientro massiccio da parte di chi ha subito le zampate dell’orso ad inizio millennio, ma se anche la prossima correzione venisse agevolmente digerita potremmo assistere all’arrembaggio degli ex delusi.
Allora sì che potremo avere del mercato un’impressione non molto dissimile a quella che ricevette John Rockfeller pochi giorni prima del crollo del ’29 negli Stati Uniti. Si narra che, recandosi in ufficio e procedendo al solito rito quotidiano della lustratina di scarpe per la strada, incontrò un giovane lustrascarpe, che evidentemente non sapeva di avere davanti il più grande investitore di quei tempi, gli consigliò di mettere i risparmi sulle azioni di Wall Street, seguendo il suo esempio.
Come Rockfeller, che nei giorni seguenti smobilizzò buona parte dei suoi investimenti, evitando così il crack, forse allora varrà la pena di chiedersi: “Se anche i lustrascarpe sono già entrati in borsa, chi deve ancora entrare affinché il mercato continui a salire?”
DI DOMAN NON C’È CERTEZZA…
Nei giorni scorsi ha tenuto banco sui giornali e nelle dichiarazioni dei politici la “clamorosa” bocciatura da parte di Standard & Poor’s e di Fitch delle qualità debitorie del nostro paese.
Le due prestigiose agenzie di rating, con un tempismo invidiabile, hanno comunicato, giovedì 19 ottobre, il declassamento del rating dell’Italia. S&P ci ha retrocessi da AA- ad A+ mentre Fitch, che è più di manica larga nei giudizi, ci ha fatti scendere da AA ad AA-. La terza agenzia più prestigiosa al mondo, Moody’s, è invece stata più clemente, lasciando il rating invariato ad Aa2.
La notizia è giunta inaspettata, almeno a giudicare dal compertamento dei giornali, che si sono buttati sull’osso dello scoop aizzando i politici dei vari schieramenti a ricercare i colpevoli. Invece di raccontarci quali implicazioni potrebbe avere tale declassamento, nel breve e nel lungo termine, si sono affaticati a raccogliere interviste di “autorevoli” esponenti del centro-destra, che ovviamente incolpavano la finanziaria di regime di Prodi, e del centro-sinistra, che altrettanto prevedibilmente attribuivano il declassamenta alla rovina dei conti pubblici lasciata in eredità da Berlusconi.
Nessuno ha fatto notare quel che i mercati sapevano ormai da tempo, e ne è testimone il fatto che la notizia ha provocato poco più di un solletico ai mercati obbligazionari su cui sono quotati i nostri titoli di stato.
Semplicemente è dal marzo scorso, non appena giunsero i dati definitivi dei conti pubblici del 2005 che il declassamento dell’Italia era cosa certa. I responsabili delle due agenzie avevano dichiarato, papale papale, che ogni provvedimento sarebbe stato rimandato a dopo l’insediamento del nuovo governo per evitare intromissioni nella campagna elettorale che era già in corso.
Infatti sono mesi che lo spread tra BTP e Bund è salito sui mercati ad un livello compreso tra 25 e 30 basis point (centesimi di punto percentuale). Tale spread, che rappresenta una misura del “rischio paese” rispetto al titolo di Stato europeo considerato più sicuro (il Bund tedesco) è misurato dalle quotazioni di mercato per ogni titolo governativo. Ad esempio in questi giorni la Francia ha 1 bp., mentre la Spagna ne ha 5, il Portogallo ne ha 17 e noi siamo quasi al termine della fila con 27. Solo la Grecia sta peggio di noi (37).
Fa una certa impressione vedersi superare, quanto ad affidabilità, da paesi che ci stanno tallonando nella classifica della ricchezza economica, come la Spagna o che nemmeno se lo sognano, come il Portogallo, che spesso viene preso ad esempio per rappresentare un paese europeo ancora arretrato.
Problemi aggiuntivi pertanto il declassamento non ne ha dati, rappresentando solo la certificazione di un fatto noto. Per ora far parte della categoria dei “singola A”, accanto a Sud Africa, Israele, Barbados e Corea del Sud, per citarne qualcuno, non implica difficoltà particolari ad ottenere prestiti, né ostacoli all’utilizzo dei nostri titoli a garanzia dei finanziamenti con la BCE. Infatti la BCE non accetterà più i nostri BTP soltanto quando perderemo anche la singola A e questo sarà certificato da tutte le agenzie. Un evento ancora piuttosto lontano.
Inoltre i mercati sembrano volere mettere alla prova ancora per un po’ le capacità di questo governo di mantenere le promesse di risanamento. La finanziaria, criticata e criticabile da tutte le parti, anche dalle note di accompagnamento delle due agenzie di rating, fissa degli obiettivi di riduzione dei rapporti deficit/PIL e Debito/PIL che per ora il mercato sembra apprezzare, anche se tra obiettivi e risultati c’è in mezzo un anno di travagliata vita del governo in carica. E’ proprio la prova dei fatti, dopo le intenzioni, che i mercati sembrano voler concedere al nostro paese.
Se Prodi tra un anno riuscirà a mostrare un rapporto Deficit/PIL nuovamente sotto il 3% ed un rapporto Debito/PIL tornato a scendere i mercati restringeranno lo spread e forse le agenzie di rating riporteranno al livello precedentela nostra valutazione. Altrimenti il giudizio del mercato tornerà a farsi sentire ed allora saranno dolori, perché in un contesto di tassi di interessi ancora in crescita, subire ulteriori allargamenti di spread significherà caricare la bisaccia del deficit con altri pesanti macigni. Si calcola che l’aumento di un punto percentuale di interesse pesi sulle casse dello Stato, a regime, circa 5-6 miliardi di euro in maggior spesa per interessi pagati ogni anno.
Più che bocciati, siamo perciò rimandati al prossimo anno. E non è detto che otterremo la promozione.
FOCUS MACROECONOMICO
L’ottimismo imperante tra le schiere di economisti, che scommettono sull’ipotesi dell’atterraggio morbido, ha ricevuto in settimana un primo elemento di riflessione e di perplessità.
Venerdì scorso il dato preliminare del PIL americano del 3° trimestre ha mostrato un’economia Usa in rallentamento un po’ più marcato di quanto ci si aspettasse. Invece del 2,1% di crescita su base annua atteso, è stato comunicato un più modesto 1,6%.
Va detto che la prima stima effettuata è tradizionalmente soggetta a successive revisioni, data la rapidità e la conseguente sommarietà con cui viene attuata. E’ quindi ancora presto per vedere cambiamenti repentini di opinione negli ottimisti, che si aggrappano al fatto che tutto sommato il calo del settore edilizio, pur sottraendo oltre un punto percentuale alla crescita complessiva, non ha ancora contagiato né i consumi, né gli investimenti produttivi, che continuano a marciare ad un buon ritmo.
Tuttavia il calo nella spesa edilizia residenziale (-17,4% nel trimestre) non può lasciare indifferenti, poiché per vedere un crollo di dimensioni superiori bisogna andare indietro di 15 anni, al 1991 nel corso di una recessione.
Anche se qualcuno fa notare che il settore edilizio rappresenta pur sempre soltanto il 5% dell’economia USA, va precisato che però costituisce il volano in grado di innescare la produzione di parecchi altri settori manifatturieri collaterali, dall’arredamento all’impiantistica. Inoltre per sua stessa natura non è un settore che può delocalizzare la produzione nei paesi in via di sviluppo, per cui un rallentamento impatta direttamente sull’occupazione americana, con effetti recessivi dovuti alla diminuzione del reddito disponibile per i lavoratori licenziati.
Inoltre, alla riduzione della spesa abitativa sta seguendo, come è ovvio in un sistema di mercato, uno sgonfiamento dei valori delle case, dai livelli stratosferici raggiunti con la continua crescita dei prezzi degli anni passati.
Pertanto può verificarsi un “effetto-povertà” nella percezione degli americani, che oltretutto potrebbero subire richieste di rimborso di parte dei mutui stipulati con le banche dando in garanzia il valore della casa posseduta.
Data l’assenza di risparmio, per rimborsare i mutui occorrerà ridurre drasticamente i consumi, con rischi di avitamento recessivo.
Non è detto che tutte queste cose accadano o che accadano in modo così massiccio da trascinare l’economia USA in una vera pesante recessione. Però l’eventualità esiste e sarebbe sciocco (talvolta i mercati lo sono, trascinati dall’euforia o dal panico collettivi) non considerarla.
Non stupisce quindi che l’uscita del dato abbia immediatamente provocato un passo indietro sul mercato azionario, salito fortemente per settimane, e da parte del dollaro, che subisce la debolezza del sistema economico americano confrontata con i segnali sorprendenti di ulteriore dinamismo provenienti dall’Europa, che fanno ritenere probabile ulteriori ritocchi al costo del denaro. Problema che Bernanke probabilmente non avrà più.
Per il nostro paese la settimana è passata a misurare gli strascichi dell’abbassamento di rating dell’Italia da parte di S&P e Fitch. Non si sono avuti scossoni sui tassi, dei nostri BTP decennali, che hanno mantenuto sostanzialmente invariato appena sopra i 25 punti base lo spread con il Bund tedesco.
La bocciatura era infatti già ampiamente prevista dai mercati, che intendono misurare l’efficacia della finanziaria prima di procedere ad un cambiamento di giudizio sulla credibilità del nostro paese come debitore.
La settimana a cavallo di ottobre e novembre presenta una nutrita serie di dati macro, praticamente ogni giorno. Tra i tanti, quelli che dovrebbero condizionare i mercati sono quelli americani relativi all’indice ISM manifatturiero e non, quelli sul mercato del lavoro e la fiducia dei consumatori.
Pierluigi Gerbino
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