I mercati azionari mondiali hanno vissuto un ulteriore approfondimento della discesa in atto da metà maggio, annullando i guadagni del 2006. Si ritorna a vedere dopo parecchi mesi il segno meno davanti alle performances. Non eravamo più abituati e questo crea qualche patema d'animo a molti investitori, fiduciosi nella salita continua dei mercati, che ora scoprono che le borse possono anche scendere.
Occorre a questo punto cercare di capire il perché di questa discesa così repentina e violenta e poi chiedersi che cosa potrà succedere.
I lettori di Borsaprof.it sono stati avvisati per tempo circa la pericolosità di questo ribasso.
Basta rileggere i commenti da metà maggio in poi per verificarlo.
Direi che se vogliamo andare oltre le motivazioni grafiche, che sono sempre quelle operativamente più affidabili, direi che buona parte del cambiamento di "sentiment" da parte dei mercati azionari mondiali è attribuibile a Bernanke, il nuovo responsabile della Federal Reserve, che ha sostituita da febbraio Alan Greenspan.
Nella settimane passate zio Ben ha presentato la prima stecca della sua breve carriera, forse dovuta ad inesperienza.
Che cosa ha fatto di così grave? In primavera, in numerose audizioni, ostentò sicurezza che la situazione economica americana fosse completamente sotto controllo: crescita robusta e senza pressioni inflazionistiche eccessive, ovvero il migliore dei mondi possibile. Conseguentemente lasciò intendere che la politica di riequilibrio dei tassi, giunti al 5%, poteva avere una pausa di riflessione. I mercati colsero al volo la possibilità di proseguire al rialzo grazie all'accondiscendenza monetaria della Fed e raggiunsero nuovi massimi proprio il 5 maggio. Nei giorni successivi però venne la doccia scozzese dell'affermazione di Bernanke che si lamentò di essere stato mal interpretato dai mercati e di nutrire una certa preoccupazione per le pressioni inflazionistiche. Allo sconcerto per il dietro front si aggiunse, a testimonianza dell'inesperienza di Bernanke, la stranezza dell'esternazione, che venne fatta in modo del tutto irrituale: ad una cena, seduto a fianco della piacevole giornalista della CNBC Maria Bartitomo, manifestò candidamente il suo pensiero senza pensare che le sue confidenze sarebbero state divulgate senza pietà dalla bella anchorwoman.
Sta di fatto che questa fu la goccia che fece traboccare il vaso già pieno degli utili di tre anni di rialzo e scatenò le prese di beneficio, che presto si trasformarono in qualcosa di più.
Non c'è nulla che possa rovinare un trend più che l'emergere dell'incertezza interpretativa. I mercati stanno ora scontando questa difficoltà di capire quel che succederà e qualcuno comincia ad avere qualche dubbio sulla capacità di Bernanke di reggere la Fed con la stessa sapienza di Greenspan.
Ce n'è abbastanza per convincere qualche investitore e qualche grosso operatore a ridurre in modo cospicuo l'esposizione sui mercati azionari.
Faccio notare ancora una volta che tutto questo trambusto è capitato in tempi e modi indipendenti dalla pubblicazione di dati economici, a testimonianza che i mercati nel breve e medio periodo sono guidati più da aspetti psicologici che dall'andamento dell'economia.
Infatti se è vero che abbiamo avuto qualche conferma negli ultimi giorni dell'aumento di pressioni inflazionistiche, è anche vero che vengono dall'economia Usa segnali abbastanza evidenti di rallentamento nel ritmo di crescita, che dovrebbero controbilanciare tali pressioni.
A meno che i mercati stiano annusando con il consueto anticipo l'emergere di una situazione esattamente opposta a quella prefigurata da Bernanke e dalla maggior parte dei banchieri centrali nei loro discorsi ufficiali:
anziché crescita sostenuta senza inflazione, potremmo avere nel nostro futuro inflazione sostenuta senza crescita. Uno scenario assai preoccupante per tutti i mercati finanziari, dall'obbligazionario all'azionario.
Se così fosse, c'è qualcuno che riesce a spiegarmi perché mai questi signori li pagano così profumatamente?
TORO-ORSO FINALE DEI MONDIALI
Oltre a chiedersi come è potuto succedere il bagno di sangue che ha colpito tutti i mercati finanziari, occorre domandarsi dove andremo a finire, o meglio, cercare di prefigurare qualche scenario e spingersi a scegliere quello che ha maggiori probabilità di manifestarsi. E' ovvio che questa operazione deve essere fatta con molta umiltà e disponibilità a cambiare idea qualora dovessero emergere novità. Purtroppo il futuro lo conosceva solo Vanna Marchi, e sappiamo come è andata a finire.
Fatte le dovute premesse bisogna chiedersi cosa ci aspetta e qui la scelta è tra i consueti due scenari che si presentano sempre al termine di una fase di rialzo dei tassi e di picco nella crescita economica: soft landing oppure hard landing. Traduzione: le politiche monetarie attuate sapranno moderare gli eccessi senza far cadere il sistema in recessione, mantenendo intatte le possibilità di crescita futura oppure la medicina ucciderà il paziente e nei prossimi mesi cadremo in recessione, con conseguente storno assai significativo da parte dei mercati finanziari?
Alla prima ipotesi stanno al momento aderendo la stragrande maggioranza dei fondamentalisti e degli economisti, oltre che, ovviamente, i banchieri centrali. Mi è capitato di leggere e sentire parecchie previsioni e sostanzialmente tutte si soffermano sul fatto che per ora il mondo non corre eccessivi pericoli in campo economico: l'inflazione è sotto controllo, nonostante la salita delle materie prime, grazie all'effetto deflazionistico della globalizzazione, che permette di produrre nei paesi emergenti a costi molto bassi. Ciò consente anche ai profitti aziendali delle società quotate di proseguire nella loro crescita, iniziata nel 2003, e di mantenersi su buoni livelli grazie alla probabile fine dei rialzi dei tassi. Gli squilibri esistenti, che nessuno nega, poiché sono presenti da anni, costituiscono un rischio ma tutto sommato abbastanza remoto poiché oggi il sistema è più solido che in passato. D'altra parte a differenza del 2000, quando ci fu il crollo dei mercati, non si vede sui mercati quella speculazione forsennata che portò il rapporto P/E medio del paniere SP500 ad oltre 40.
Oggi tale rapporto è inferiore a 20 e non troppo lontano dal valore della media storica di lungo periodo, che è di circa 15. Pertanto quella in corso è da considerarsi una semplice correzione, di quelle che periodicamente avvengono sui mercati e consentono loro di ricaricare le pile per tornare a salire.
Insomma, più o meno la versione ufficiale della Federal Reserve.
C'è poi il partito di chi è più pessimista e fa notare che quello che abbiamo vissuto è stato soltanto un lungo e profondo rimbalzo, ma incapace di invertire il trend ribassista di lunghissimo periodo attualmente ancora in atto sui mercati occidentali. La conseguenza potrebbe essere molto pesante, poiché l'orso tornerebbe a graffiare con virulenza se qualcuno degli squilibri esistenti negli Usa dovesse collassare.
In particolare fa molta preoccupazione (non alla Fed, ma ad altri sì) la situazione del mercato immobiliare. Uno degli ultimi studi presentati e firmati da Greenspan prima di andare in pensione rilevava la forte funzione di estrazione di liquidità da parte dei mutui immobiliari in Usa. In altre parole, il meccanismo che da anni è in atto tra gli americani, che come è noto, non risparmiano nulla (il tasso di risparmio nel 2005 è stato di circa -0,8% di PIL), consiste nell'approfittare dell'incremento di valore degli immobili per rinegoziare i mutui ipotecari ed aumentarne l'importo (grazie all'aumento di valore della garanzia prestata). Ciò consente di fronteggiare le esigenze di consumi crescenti anche in assenza di aumenti retributivi. Secondo lo studio di Greenspan circa 1/3 dei mutui è fatto per finanziare direttamente le spese personali. Altri stimano tale quota addirittura al 50%.
Tutto è andato bene fin che i prezzi delle case sono cresciuti. Ma da circa sei mesi il mercato immobiliare americano è arrivato a fine corsa. Recenti stime parlano di un rallentamento delle vendite di case del 35% rispetto allo scorso anno. Anche l'indice di fiducia dei costruttori è ai livelli più bassi dal 1995 ed i prezzi hanno smesso di salire e cominciano a scendere.
E' evidente che se dovesse invertirsi il ciclo sull'immobiliare ed i prezzi iniziassero a calare in modo sensibile, il contesti di tassi significativamente più alti di un anno fa e magari ancora crescenti innescherebbe una spirale recessiva, innescata dal fatto che il settore immobiliare è un volano per l'economia e l'occupazione, ed alimentata dal calo dei consumi provocato dalle necessità di rientro dell'indebitamento dei privati.
Se lo scoppio della bolla immobiliare può fare seri danni, anche la politica della Fed potrebbe provocare una recessione.
Chi mi segue da più tempo ricorderà che io ho sempre attribuito a Greenspan un eccesso di accondiscendenza nei due anni in cui il tasso di interesse americano rimase fermo all'1%. Ciò comportò la creazione di un eccesso di liquidità che permise e favorì il rimbalzo delle borse, ma creò le premesse per la crescita della bolla immobiliare e alimentò la mania dell'indebitamento degli americani.
Mettendo mano in ritardo ad una politica di riequilibrio dei tassi, la Fed ora rischia di protrarla oltre il necessario, pressata dagli impulsi inflazionistici che essa stessa ha favorito. La restrizione monetaria può quindi risultare eccessiva e proseguire anche quando il ciclo economico avrà svoltato verso la moderazione.
A ben vedere questo ritardo nell'interpretazione delle inversioni cicliche è abbastanza frequente nelle scelte delle banche centrali. Charlie Minter ha provato a contare, negli ultimi 53 anni, le volte in cui la Fed ha attuato manovre restrittive e quel che è successo dopo. Su 12 manovre di rialzo dei tassi, solo 3 volte a questa manovra non è seguita una recessione. Per ben 9 volte, cioè tre quarti del totale, la medicina ha ucciso il paziente ed ha contribuito a generare una recessione.
Il perché di tutto questo dipende dal ritardo con cui gli effetti del rialzo dei tassi si trasmettono all'economia. A questo si aggiunge il ritardo con cui gli effetti sull'economia vengono ufficialmente percepiti nelle statistiche. Tipicamente la Fed prosegue nella manovra fino a quando non ha la conferma che l'economia rallenta. Ha fatto così anche questa volta, dichiarando che le future mosse sui tassi dipenderanno dai dati pubblicati.
Però quando la frenata arriva sulle tabelle degli uffici statistici il processo è già in atto da mesi, per cui vi è il rischio che gli aumenti abbiano oltrepassato la soglia del necessario, causando ulteriore impulso recessivo ad un sistema che rallenterebbe da solo.
Chi si interessa da un po' di tempo di finanza ricorderà che il medesimo errore venne fatto con la stretta monetaria attuata da Greenspan nel '99-2000. L'anno seguente arrivò la recessione dopo il crollo delle borse.
Un altro interessante dato statistico riguarda la reazione delle borse al rialzo dei tassi. Molti credono che i mercati azionari scendano quando i tassi salgono, e possano riprendere a salire al termine della manovra restrittiva della banca centrale. Non a caso molti commenti di qualche settimana fa ipotizzavano la possibilità di continuazione del rialzo delle borse se la Fed avesse interrotto la manovra restrittiva.
Ebbene, l'evidenza smentisce questa credenza. Infatti, sempre nel medesimo periodo di 53 anni ben 10 volte su 12 l'indice SP500 è sceso, ma non durante lo svolgimento della manovra sui tassi, bensì al termine di essa. Ogni correzione è stata significativa (mediamente superiore al 20%) ed è durata parecchi mesi (in media 10 mesi).
Chi avrà ragione in questa partita dell'anno tra ottimisti e pessimisti? Personalmente ritengo più probabile l'ipotesi pessimistica, perché oltre che essere, a mio parere, più plausibile, ha la storia dalla sua parte, mentre gli economisti normalmente non ci acchiappano molto.
D'altra parte uno dei più spiritosi premi Nobel per l'economia, Paul Samuelson, quando gli fu chiesto di commentare la professione dell'economista rispose: "Il mio lavoro consiste nel fare delle previsioni che la realtà si preoccuperà di smentire".
FOCUS MACROECONOMICO
Continuano i segnali di moderata contrazione dei tassi di crescita per l'economia americana ed aumentano i timori per una impennata dell'inflazione. Le parole pronunciate la scorsa settimana dai membri dei comitati direttivi delle principali banche centrali hanno sottolineato che le principali preoccupazioni oggi riguardano i rischi di incremento del tasso di inflazione causato dai prolungati rialzi dei prezzi delle materie prime e dalla forza della domanda finale per le principali economie.
E' singolare che tali preoccupazioni si acuiscano proprio nelle settimane in cui i prezzi delle principali materie prime hanno subito una decisa sforbiciata, dopo i prolungati rialzi dei mesi scorsi, e proprio quando appaiono più evidenti i segnali di rallentamento del ritmo della crescita, almeno in Usa.
Purtroppo sembrano venire al pettine, con un certo ritardo, quei nodi che, troppo ottimisticamente, molti commentatori avevano considerato sciolti, assecondati dalle rassicuranti parole di alcuni banchieri centrali, tra cui lo stesso Bernanke ed il suo predecessore Greenspan.
Il nuovo paradigma, che prevede la stabiltà dei prezzi finali a prescindere dalle pressioni sui costi di produzione, grazie alla forza dell'aumento di produttività ed alle spinte deflazionistiche indotte dalla globalizzazione, viene messo alla prova dei fatti. Già ad aprile l'inflazione americana, soprattutto quella globale, ma anche quella "core" (senza energia ed alimentari), ha mostrato un balzo inaspettato, che l'ha portata nuovamente al tasso del 3,5%. I mercati attendono quindi con molto timore il dato relativo a maggio, che uscirà mercoledì prossimo e sarà di gran lunga il dato più importante della settimana.
Le previsioni degli esperti indicano il tasso tendenziale in salita al 3,9% annuo, mentre il tasso "core dovrebbe rimanere stabile al 2,3% già segnato ad aprile.
Superfluo precisare che ciò che importa sarà il dato effettivo, specialmente se si discosterà dalle previsioni. In tal caso è molto probabile che la reazione dei mercati sia molto violenta, poiché è questo il nervo scoperto dei mercati i questo momento.
Un dato peggiore delle stime imprimerebbe una probabile accelerazione ribassista all'azionario ed anche ai bonds e probabilmente premierebbe il dollaro per i riflessi che potrebbe avere sui tassi di interesse, spingendo la Federal Reserve a nuovi rialzi.
Un dato invece più moderato del previsto potrebbe rassicurare i mercati favorendo la ripresa dei bonds ed un rimbalzo del mercato azionario, molto sacrificato negli ultimi giorni.
Gli altri dati, pur oggettivamente importanti, forniranno soltanto il contorno al piatto forte rappresentato dall'indice dei prezzi.
Tra essi ricordo i prezzi alla produzione americani (martedì) e, sempre dagli USA, i dati sulla produzione industriale (giovedì). Infine venerdì è da tenere d'occhio la fiducia dei consumatori del Michigan.
Pierluigi Gerbino
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