Ci sono dei momenti, nella vita di ciascuno, in cui si sente assordante il rumore della quotidianità, in cui tutto ciò che fino ad un attimo prima occupava la mente ed il cuore come un'incomprimibile necessità lo si vorrebbe mettere da parte, per fermarsi a riflettere e dedicare se stessi a ciò che conta veramente della propria vita.
E' un sentimento che credo abbiano provato in molti in questi giorni, attratti, come forse mai avrebbero creduto, dalla figura di un vecchio morente, incapace di muoversi e persino di parlare, ma dotato di una capacità soprannaturale di comunicare ciò che veramente è importante.
La morte di Papa Giovanni Paolo II ha prodotto più di un miracolo nelle coscienze di credenti e non credenti.
Non solo è riuscita a far tacere per ben tre giorni i politici di questa nostra Italietta, riportandoli al silenzio della constatazione di quanto le cose della politica nostrana siano vacue in confronto al messaggio che la sofferenza silenziosa di un grande uomo riesce a comunicare.
Non solo è riuscita a far tacere finalmente i programmi spazzatura delle nostre emittenti tv, finalmente tornate al loro ruolo di informazione e di "alta" comunicazione che finalmente ha risollevato il livello culturale in cui erano precipitate le tv generaliste.
La morte del Papa ha riportato tutti a confrontarsi con il suo messaggio, risuonato in questi giorni: esso interpella le coscienze di chi si dice cristiano ma troppo spesso ignora l'insegnamento di chi è la guida spirituale della cristianità, ma anche di chi si professa laico e tuttavia non può evitare di confrontarsi con la statura morale del messaggio di questo pastore, forte soltanto della sua fede e dell'autorevolezza del suo messaggio di pace e fratellanza universale.
Forse molta gente ha scoperto o riscoperto la propria fede proprio in questi giorni, incontrando la sofferenza di questo Padre Spirituale dell'umanità, esibita e mai nascosta, quasi a volerla rivalutare agli occhi di questa società dell'immagine dove solo i belli, i forti ed i potenti hanno voce.
La fiumana silenziosa ed ordinata di migliaia di pellegrini che in questi giorni stanno affrontando ore di attesa per passare per pochi secondi davanti al corpo immobile del Papa vestito di rosso testimonia il segno profondo che questo uomo "di un paese lontano" ha lasciato al mondo, ora che sta lasciando questo mondo per riunirsi al Padre dei Cieli.
Allora anche CLASSIC questa settimana tace e cede lo spazio al Papa.
Negli articoli che seguono parla Lui. Attraverso alcuni brani dell'ultima sua Enciclica sociale, la "Centesimus Annus", scritta nel 1991, vorrei portare all'attenzione dei lettori il pensiero di Giovanni Paolo II su alcuni aspetti che più hanno a che fare con i temi che settimanalmente affrontiamo. Il suo parere è immensamente più autorevole del mio.
QUALE CAPITALISMO
Si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che cercano di ricostruire la loro economia e la loro società?
E' forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progrsesso economico e civile?
La risposta è ovviamente complessa. Se con "capitalismo" si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di "economia d'impresa" , o di "economia di mercato", o semplicemente di "economia libera". Ma se con "capitalismo" si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è negativa.
La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa. Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti Paesi elimina certo un ostacolo nell'affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli. C'è anzi il rischio che si diffonda un'ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta persino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori condannato all'insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato. (Centesimus annus, n. 42)
LA FUNZIONE DEL PROFITTO
La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell'azienda: quando un'azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia, il profitto non è l'unico indice delle condizioni dell'azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell'azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l'efficienza economica dell'azienda. Scopo dell'impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell'azienda, ma non è l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell'impresa.
Si è visto come è inaccettabile l'affermazione che la sconfitta del cosiddetto «socialismo reale» lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica. Occorre rompere le barriere e i monopoli che lasciano tanti popoli ai margini dello sviluppo, assicurare a tutti - individui e Nazioni - le condizioni di base, che consentano di partecipare allo sviluppo. Tale obiettivo richiede sforzi programmati e responsabili da parte di tutta la comunità internazionale. Occorre che le Nazioni più forti sappiano offrire a quelle più deboli occasioni di inserimento nella vita internazionale, e che quelle più deboli sappiano cogliere tali occasioni, facendo gli sforzi e i sacrifici necessari, assicurando la stabilità del quadro politico ed economico, la certezza di prospettive per il futuro, la crescita delle capacità dei propri lavoratori, la formazione di imprenditori efficienti e consapevoli delle loro responsabilità.
Al presente sugli sforzi positivi che sono compiuti in proposito grava il problema, in gran parte ancora irrisolto, del debito estero dei Paesi più poveri. È certamente giusto il principio che i debiti debbano essere pagati; non è lecito, però, chiedere o pretendere un pagamento, quando questo verrebbe ad imporre di fatto scelte politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni. Non si può pretendere che i debiti contratti siano pagati con insopportabili sacrifici. In questi casi è necessario - come, del resto, sta in parte avvenendo - trovare modalità di alleggerimento, di dilazione o anche di estinzione del debito, compatibili col fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza ed al progresso. (Centesimus annus, n. 35)
LA PARTECIPAZIONE AL PROGRESSO
In effetti, la principale risorsa dell'uomo insieme con la terra è l'uomo stesso. È la sua intelligenza che fa scoprire le potenzialità produttive della terra e le multiformi modalità con cui i bisogni umani possono essere soddisfatti. È il suo disciplinato lavoro, in solidale collaborazione, che consente la creazione di comunità di lavoro sempre più ampie ed affidabili per operare la trasformazione dell'ambiente naturale e dello stesso ambiente umano. In questo processo sono coinvolte importanti virtù, come la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell'assumere i ragionevoli rischi, l'affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la fortezza nell'esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma necessarie per il lavoro comune dell'azienda e per far fronte agli eventuali rovesci di fortuna.
La moderna economia d'impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi. L'economia, infatti, è un settore della multiforme attività umana, ed in essa, come in ogni altro campo, vale il diritto alla libertà, come il dovere di fare un uso responsabile di essa. Ma è importante notare che ci sono differenze specifiche tra queste tendenze della moderna società e quelle del passato anche recente. Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l'uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell'altro.
33. Non si possono, tuttavia, non denunciare i rischi ed i problemi connessi con questo tipo di processo. Di fatto, oggi molti uomini, forse la grande maggioranza, non dispongono di strumenti che consentono di entrare in modo effettivo ed umanamente degno all'interno di un sistema di impresa, nel quale il lavoro occupa una posizione davvero centrale. Essi non hanno la possibilità di acquisire le conoscenze di base, che permettono di esprimere la loro creatività e di sviluppare le loro potenzialità, né di entrare nella rete di conoscenze ed intercomunicazioni, che consentirebbe di vedere apprezzate ed utilizzate la loro qualità. Essi insomma, se non proprio sfruttati, sono ampiamente emarginati, e lo sviluppo economico si svolge, per così dire, sopra la loro testa, quando non restringe addirittura gli spazi già angusti delle loro antiche economie di sussistenza. Incapaci di resistere alla concorrenza di merci prodotte in modi nuovi e ben rispondenti ai bisogni, che prima essi solevano fronteggiare con forme organizzative tradizionali, allettati dallo splendore di un'opulenza ostentata, ma per loro irraggiungibile e, al tempo stesso, stretti dalla necessità, questi uomini affollano le città del Terzo Mondo, dove spesso sono culturalmente sradicati e si trovano in situazioni di violenta precarietà, senza possibilità di integrazione. Ad essi di fatto non si riconosce dignità, e talora si cerca di eliminarli dalla storia mediante forme coatte di controllo demografico, contrarie alla dignità umana.
Molti altri uomini, pur non essendo del tutto emarginati, vivono all'interno di ambienti in cui è assolutamente primaria la lotta per il necessario e vigono ancora le regole del capitalismo delle origini, nella «spietatezza» di una situazione che non ha nulla da invidiare a quella dei momenti più bui della prima fase di industrializzazione. In altri casi è ancora la terra ad essere l'elemento centrale del processo economico, e coloro che la coltivano, esclusi dalla sua proprietà, sono ridotti in condizioni di semi-servitù. In questi casi si può ancora oggi, come al tempo della Rerum novarum, parlare di uno sfruttamento inumano. Nonostante i grandi mutamenti avvenuti nelle società più avanzate, le carenze umane del capitalismo, col conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono tutt'altro che scomparse; anzi, per i poveri alla mancanza di beni materiali si è aggiunta quella del sapere e della conoscenza, che impedisce loro di uscire dallo stato di umiliante subordinazione.
Purtroppo, la grande maggioranza degli abitanti del Terzo Mondo vive ancora in simili condizioni. Sarebbe, però, errato intendere questo Mondo in un senso soltanto geografico. In alcune regioni ed in alcuni settori sociali di esso sono stati attivati processi di sviluppo incentrati non tanto sulla valorizzazione delle risorse materiali, quanto su quella della «risorsa umana».
In anni non lontani è stato sostenuto che lo sviluppo dipendesse dall'isolamento dei Paesi più poveri dal mercato mondiale e dalla loro fiducia nelle sole proprie forze. L'esperienza recente ha dimostrato che i Paesi che si sono esclusi hanno conosciuto stagnazione e regresso, mentre hanno conosciuto lo sviluppo i Paesi che sono riusciti ad entrare nella generale interconnessione delle attività economiche a livello internazionale. Sembra, dunque, che il maggior problema sia quello di ottenere un equo accesso al mercato internazionale, fondato non sul principio unilaterale dello sfruttamento delle risorse naturali, ma sulla valorizzazione delle risorse umane.
Aspetti tipici del Terzo Mondo, però, emergono anche nei Paesi sviluppati, dove l'incessante trasformazione dei modi di produrre e di consumare svaluta certe conoscenze già acquisite e professionalità consolidate, esigendo un continuo sforzo di riqualificazione e di aggiornamento. Coloro che non riescono a tenersi al passo con i tempi possono facilmente essere emarginati; insieme con essi lo sono gli anziani, i giovani incapaci di ben inserirsi nella vita sociale e, in genere, i soggetti più deboli e il cosiddetto Quarto Mondo. Anche la situazione della donna in queste condizioni è tutt'altro che facile. (Centesimus annus, n. 32-33)
Pierluigi Gerbino
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