Le vicende degli ultimi giorni sui mercati finanziari ci confermano quanto le borse siano puledre bizzose e difficili da domare.
Proprio quando in giro non si vedeva quasi nessun esperto dubbioso circa le sorti dei mercati finanziari, destinati a tornare rapidamente oltre i massimi e proseguire il trend rialzista in atto da quasi tre anni, ecco che hanno preso tutti in contropiede e innestato la retromarcia.
Il ribasso dei mercati azionari non si sta svolgendo in modo omogeneo a tutte le latitudini.
Anzi, dobbiamo dire che se negli USA possiamo classificare quella in atto come correzione vera e propria, in Europa e in Asia al momento il ritracciamento non ha ancora scalfito il trend rialzista di medio periodo e ad essere sinceri neanche quello di breve periodo.
Tuttavia, a meno di voler pensare che i mercati europei ed asiatici vogliano veramente scrollarsi di dosso ogni condizionamento americano, e sarebbe la notizia dell'anno, credo che sia necessario prestare la dovuta attenzione a quel che sta succedendo oltre oceano.
Si temevano cattive notizie dal fronte del mercato del lavoro a causa dei disastri degli uragani, ma così non è stato. Il calo degli occupati nel mese seguente agli uragani è stato di gran lunga inferiore alle attese. L'economia Usa sta piuttosto dando segnali che la portata recessiva che gli esperti attribuivano a Katrina e Rita sia stata sovrastimata. Il sistema economico americano sta mostrando una forza che neanche gli uragani hanno scalfito più di tanto.
Anche il petrolio, dopo aver toccato nuovi record proprio in concomitanza con la furia delle tempeste, ha ritracciato vistosamente riportandosi a più sostenibili livelli nei pressi dei 60 dollari.
Stupisce quindi vedere i mercati venire giù, proprio quando dall'economia reale non vengono brutti dati, proprio come stupiva vedere i mercati azionari ai massimi quando il petrolio non smetteva di salire e si susseguivano notizie macroeconomiche perlomeno grigie.
Ma tant'è. I mercati stupiscono sempre, altrimenti che gusto ci sarebbe?
Se devo individuare l'elemento che potrebbe spiegare la debolezza americana, credo che si debba riprendere quel che ho scritto più volte in passato.
In poche parole, ho spesso affermato che, sebbene si dovesse ammettere che la struttura delle moderne economie non è più quella di un tempo, strettamente dipendente dalle fonti di energia, mi sembrava strano che l'inflazione potesse continuare a dormire a lungo in presenza di un prezzo del petrolio quasi triplicato in due anni.
A forza di fare i conti senza l'oste, si rischia di non poter pagare quando l'oste arriva. Ecco che sembra proprio che l'oste si stia profilando all'orizzonte. Improvvisamente si sta scoprendo che forse qualche tensione sui prezzi sta arrivando e che gli ingenti stanziamenti per la ricostruzione della Louisiana e del Texas non potranno che far peggiorare la già grave situazione del deficit federale.
Il rischio che la spinta dal lato della domanda per colpa del deficit e dal lato dei costi per colpa del petrolio creino un coctail in grado di fare decollare l'indice dei prezzi al consumo in America comincia ad essere preso in considerazione a vari livelli, non ultimo quello della Federal Reserve, che con l'ennesimo rialzo dei tassi a breve al 3,75% ha chiaramente mostrato di aver più timore della ripresa dell'inflazione che degli effetti recessivi di Katrina. Se vogliamo una cartina al tornasole dei timori di inflazione basta che si vada a guardare che cosa sta succedendo ai prezzi dell'oro, il bene rifugio per eccellenza, da sempre correlato con le aspettative di inflazione.
Il metallo giallo ha realizzato massimi di assoluto rilievo e sta tornando abbastanza rapidamente verso il livello di 500 dollari, che rappresenta il massimo storico del 1988.
Lo scenario che si presenta non è quindi per nulla rassicurante per i mercati azionari, che hanno tutto da perdere da una ripresa dell'inflazione, ma anche per i mercati obbligazionari, su cui si innescherebbe l'aumento nei rendimenti a lungo termine e la decisa flessione delle quotazioni.
Ecco perché l'avvicinarsi del dato sui prezzi al consumo, previsto per venerdì prossimo, porta nervosismo sui mercati.
FOCUS MACROECONOMICO
La macroeconomia ha portato nei giorni scorsi indicazioni abbastanza confortanti.
Il dato più temuto dai mercati, cioè quello relativo al mercato del lavoro USA, non ha mostrato quel devastante impatto degli uragani che molti si attendevano. E' vero che per la prima volta da molti mesi si è rilevata una diminuzione nei posti di lavoro. Tuttavia gli uragani hanno distrutto solamente 35.000 buste paga contro le 150.000 temute.
Ha fatto da contraltare il calo a sorpresa dell'indice ISM servizi, che ha rivelato come tra i responsabili degli acquisti delle principali società Usa cominci a serpeggiare un po' di nervosismo, soprattutto legato al timore di tensioni sui prezzi. Non è bastato a tranquillizzare il ritorno del prezzo del petrolio intorno a 60 dollari, in deciso rittracciamento dai picchi toccati nei giorni degli uragani.
Il risultato è stato perciò un periodo riflessivo sui mercati azionari, con cali generalizzati in tutto il mondo e soprattutto in America, mentre anche il comparto obbligazionario ha proseguito nel suo lento declino.
Dei timori congiunturali ha invece tratto beneficio l'oro, il tipico bene rifugio che torna di moda in periodi di inflazione, il quale sta procedendo abbastanza spedito verso il traguardo dei 500 dollari, ormai alle viste.
La settimana corrente presenta ben poco di significativo fino a giovedì, quando sarà la volta della bilancia commerciale americana. Venerdì avremo invece parecchi dati importanti. Su tutti si erge la misurazione dell'inflazione al consumo americana di settembre, chiamata a darci i primi importanti riscontri ai timori degli operatori e della stessa Federal Reserve circa la possibile recrudescenza della spirale inflattiva.
Entrano nel vivo le trimestrali americane, con due pezzi da novanta: Apple e General Electric.
Pierluigi Gerbino
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