Torniamo a commentare i mercati dopo due mesi in cui i mercati hanno in parte tenuto fede alle promesse fatte a giugno.
In particolare molto fedele alle previsioni è stato il cambio euro-dollaro, che, riuscendo a tenere il livello intorno a 1,18, è poi rimbalzato fino al livello da noi indicato di 1,25. Ora vedremo se avrà la forza di superarlo.
Il petrolio, grazie alle devastanti conseguenze dell'uragano Katrina, che hanno bloccato la produzione di importanti raffinerie sul Golfo del Messico, ha avuto una fiammata speculativa che gli ha consentito di realizzare il nuovo massimo storico a 70,85 $, per poi retrocedere negli ultimi giorni a causa della decisione di Bush di sbloccare le riserve strategiche per fronteggiare l'emergenza. E' comunque evidente che questa strategica materia prima è soggetta ad una strozzatura piuttosto consistente nell'offerta e, se proseguirà l'attuale ritmo di crescita mondiale e soprattutto quello della Cina, non si intravedono alternative alla progressiva salita dei prezzi dell'energia anche per il medio termine.
Questa evidenza è stata ben recepita sui mercati e si è riflessa nell'andamento esplosivo nelle ultime sedute di titoli energetici, che pure avevano già corso molto in estate. Per stare alla nostra Borsa Eni, Erg, Saipem, Tenaris, Trevi e Socoterm, cioè i titoli più legati all'estrazione ed alla raffinazione dell'oro nero, hanno infilato ripidi canali ascendenti che hanno polverizzato i massimi storici e stanno appena accennando adesso a rientrare un pochino dagli eccessi.
I listini azionari invece hanno mostrato due volti. Dapprima, in luglio, hanno superato i precedenti massimi, senza però riuscire a proseguire fino agli obiettivi indicati. Nella prima parte di agosto hanno poi iniziato una correzione che si è quasi rimangiata l'avanzata di luglio. Nell'ultima settimana di agosto sono rimbalzati e sembrano proprio in questi giorni voler riprendere il discorso rialzista interrotto.
In realtà non tutti i mercati hanno lo stesso smalto. Se vogliamo sottilizzare, dobbiamo certamente notare la miglior forza da parte dell'indice giapponese Nikkey, che, mentre gli altri correggevano è riuscito a superare l'importante resistenza di area 12.000 punti, fornendo così una indicazione rialzista di lungo periodo avente obiettivi piuttosto ambiziosi stimabili a quota 16.500.
Seguono, in termini di forza relativa, gli indici europei, che sono ormai prossimi ad aver recuperato tutto il terreno perduto dai massimi di inizio agosto. Il superamento di questi massimi sarà in grado di innescare un ultimo strappo rialzista verso quota 3800 dell'indice Eurostoxx50.
Gli indici USA sono invece ancora alle prese con la definizione delle caratteristiche del movimento in corso, trovandosi un po' più distanti dai massimi di inizio agosto. Non è ancora definitivamente acquisito il recupero di tale area e permangono alcuni dubbi circa la natura di semplice rimbalzo del movimento rialzista in corso.
Sottigliezze a parte direi comunque che la buona salute degli indici azionari risulta confermata e sembrano esserci tutte le premesse per smentire la cabala che vede nel mese di settembre il peggior mese borsistico dell'anno.
Quel che stupisce parecchio è vedere ancora perpetuarsi da parecchi mesi un andamento dei prezzi del mercato obbligazionario in crescita, col ritorno dei Tbonds vicino ai massimi di sempre ed il deciso superamento del massimo storico da parte del Bund europeo.
Avevo già fatto notare l'apparente illogicità della sincronia nel comportamento rialzista dei mercati obbligazionari ed azionari. Il movimento rialzista dei primi sconta infatti prospettive economiche piuttosto fosche. Pare che la scommessa degli operatori dei mercati obbligazionari sia ormai quella che vede per i prossimi trimestri un andamento dell'economia americana ed europea piuttosto stagnante, al punto da indurre la Federal Reserve, anche in considerazione degli effetti recessivi che provengono dalla distruzione dell'uragano, ad interrompere la manovra di progressivo e graduale ritorno alla normalità dei tassi di interesse. Alcuni si sbilanciano addirittura a prevedere un prossimo moderato calo ai tassi sui Federal Funds da parte di Greenspan.
Un tale scenario tuttavia non è coerente con l'ottimismo dei listini azionari, che a rigor di logica dovrebbero essere ricacciati indietro da tali prospettive, poiché la fine della crescita economica fornirebbe un duro colpo agli utili aziendali, già compromessi dalle pressioni sui costi provocate dai prezzi del petrolio, che gradualmente cominciano ad intravedersi.
Personalmente ritengo che l'anomalia descritta derivi da due fattori: da un lato la insufficiente percezione da parte dei mercati dei rischi di inflazione presenti. Si continua a ritenere che l'inflazione non possa rialzare la testa, nonostante che i prezzi dell'energia siano quasi triplicati in tre anni e quello dell'insieme delle materie prime sia quasi raddoppiato. E' vero che rispetto al passato le nostre economie sono generalmente meno condizionate dal prezzo dell'energia e che rispetto agli anni '70 le possibilità dei sindacati di inseguire con aumenti salariali gli aumenti dei prezzi sono ridotte al lumicino. Tuttavia mi appare piuttosto curioso che si possa continuare a trascurare il rischio di un aumento significativo dell'inflazione. Se questa eventualità capitasse, costringendo le banche centrali a stringere sui tassi non vorrei essere nei panni dei possessori di obbligazioni a lungo termine.
Il secondo motivo credo risieda nel cosiddetto "carry trade" che molti operatori stanno effettuando pesantemente, specialmente sui mercati azionari europei, grazie all'enorme massa di liquidità a buon mercato disponibile attualmente.
In sintesi tutto nasce dal fatto che le condizioni creditizie, specialmente in Europa, sono estremamente convenienti. E' possibile indebitarsi a dieci anni pagando poco più del 3%, cosa mai vista prima. Molti operatori professionali trovano perciò conveniente finanziarsi in Europa a questi tassi per investire sui mercati azionari europei, ritenuti ancora sottovalutati e soprattutto in grado di fornire rendimenti cedolari in moltissimi casi superiori al tasso pagato per finanziarsi. Questo comportamento viene a creare una specie di bolla sull'azionario, che può continuare a gonfiarsi fino a quando le imprese potranno permettersi di continuare a remunerare così bene i loro azionisti. Mi ha fatto molto pensare la lettura di un dato, apparso in questi giorni, che evidenzia che oltre il 20% della capitalizzazione della Borsa tedesca è in mano agli Hedge Funds.
E si sa che i fondi hedge, quando è il caso, sono molto rapidi a cambiare idea.
FOCUS MACROECONOMICO
I mesi estivi hanno portato dati macroeconomici che nella sostanza hanno confermato i timori di un certo rallentamento dell'economia americana, senza però fornire quella sensazione di fine ciclo tale da poter indurre i mercati azionari a prendere in considerazioone una sostanziale correzione.
Tra i numerosi dati pubblicati in luglio ed agosto mi sono apparsi più significativi quello sul PIL del secondo trimestre, registrato al 3,3%, in lieve arretramento sul primo trimestre; quello sull'inflazione, che sta forse rialzando la testa a causa del prezzo del petrolio, volato in estate anche oltre 70 dollari al barile e che sta forse cominciando a far sentire qualche pressione sugli indici dei prezzi.
Di un certo rilievo mi sono apparse anche altre due notizie degli ultimi giorni, che forse possono essere ritenute minori, ma che a mio parere rivestono una certa importanza. Per la prima volta da molti mesi uno degli indicatori di vigore dell'attività manifatturiera (l'indice PMI di Chicago) ha fornito un valore al di sotto del livello critico di 50, soglia che divide l'espansione economica (al di sopra) dalla recessione (al di sotto). E' la prima timida indicazione di inversione del ciclo economico. Il secondo dato da segnalare è la misurazione negativa del tasso di risparmio delle famiglie americane. Il dato, che da anni mostrava una contrazione fino ad arrivare praticamente a zero, ha ora sfondato anche questa soglia e rivela che le famiglie americane non solo non risparmiano più, ma che hanno bisogno di finanziamenti per tirare avanti. E una situazione che non può proseguire a lungo e che prima o poi, specialmente se i tassi saliranno ancora, avrà effetti notevoli sulla capacità di consumo.
A queste indicazioni di debolezza si è poi aggiunto nell'ultima settimana la presa d'atto della devastazione materiale, umana e direi anche morale, visti gli episodi di inciviltà, dell'uragano Katrina. Stando soltanto ai danni materiali, che sono ancora in via di accertamento, ma che sicuramente provocheranno per parecchio tempo il blocco dell'attività estrattiva e di raffinazione dei numerosi impianti petroliferi della zona, gli economisti si affannano a stimarne le conseguenze negative sulla crescita USA. C'è persino che parla di una dinimuzione del PIL americano del 3%, che a me appare eccessiva. Tuttavia è chiaro che l'impatto della tragedia non potrà certo essere espansivo ed agirà da ulteriore volano alle spinte al rialzo del prezzo del greggio, che già provengono da altre direzioni.
Le prossime settimane dovranno quindi registrare nei dati macro le conseguenze di questi eventi.
Questa sono particolarmente attesi dagli USA l'indice ISM servizi (martedì) e la produttività (mercoledì). Sul fronte societario si riuniscono parecchi CdA per esaminare le semestrali.
Pierluigi Gerbino
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